domenica, dicembre 31

Avevo rigo, incipit ed intenzione; chi poteva sottrarlo! Tutto muta, però, senza preavvisi, né perché. Il primo pensiero và ad un patto che grottescamente non potrò onorare, e non so quanti potrebbero capire. Affari di lana caprina, i miei; ma così è, e non l’ho scelto d’intenzione. Ricordi quella deflagrazione? Non te ne sarai accorto, c’ero; no, non in quel momento: da tempo e settimane, con quelle fitte nei soffi di vento e nelle battute di sole. Certo, non il migliore dei figli; e come lo potrei, quando l’imperfetto entra nelle vene come l’imperfettibile. Forse il raddoppio d’intenzione, precipitato d’uopo nella vita, può colmare il dimezzarsi del propellente.
Chissà chi potrà leggermi, e così scrivo lo stesso con una posa roteata di collo e testa; testimoni i polpastrelli, freddi e asciutti. “Perché e per chi”; parole che scemano sempre, sorriso o sguardo che sia. Per il resto il pensiero va a momenti labili; al bianco, che ovunque appena sostenne un sospiro unico in sorsi repentini. C’ero? Forse, preda di mani preste e liquidi strani. Ho sussurrato in quella notte, lo ricordo come scalpello su pietra; parole libere, perché non accetto mani e dileggi. Cosa volete che rispondessi a quelle domande, se nessuno, invece che chiedere, toccò le rugosità della mia mano. Allora, che facciano pure, ma non mi guardino negli occhi, “per la mia rabbia enorme mi servono giganti”. Ma non voglio dir solo nero; tra porte e soffi s’adagiò anche garbo e ruolo, aria vibrante d’ottoni e fiato; che quel indice non fu per il suo sorriso, ma spada triste di riga. Qui finisce anno e intento. Agito una mano; e voi?

mercoledì, novembre 29

Con il pensiero magico niente si ferma nella sua soglia; chiude appena gli occhi, e sogna. Ti ho visto in cima alle melanconie, ancora in tempo per nuove scalate. Senza vincoli, con l’orientare delle mani, un gesto, pochi versi e il cielo era a pochi passi. Ricordo i bui, assimilati ai fondi neri, ma lo sguardo, quello tuo, non mutava; fisso, serafico come le radici di quercia, osservavi attraverso profondo scuro degli occhi. Così facendo assimilavi tutto: ansie e torture, innovazione, guai e richiami. Non c’erano argini e confini, solo con il pensiero evolvevi foreste di foglie inceste. Sembravi aver capacità d’inebetire futuro e avversità; riponevi ansie e sfoghi dentro fondi di tasche remote; poi, con un solo gesto, rimuovevi inquadrature e sottomissioni. Nessun quadro era invisibile, solo sequenze da sfogliare per un mondo aperto. Mi serve, ora, quella tua magia, per eludere il tempo ed imbrigliarne movenze in sequenze di pagine da leggere. Trovami, io ascolto la tua voce alla ricerca di tono, e chiudo gli occhi. Insegnami movenze fluide, per ingannare il mondo intero e per sorseggiare ancora una volta sponde d’alba. Uno sguardo, ed io intersecherò il mio, sovrapponendo speranze. Mai pago, uguale nell’universo.

sabato, settembre 16

Animo,
fuggi
dal corpo galeotto
di sbarre limacciose;
traccia valichi
e frontiere,
sottrai seguito
all’aspro ingurgito
di foglie secche
e terra di fiele.

Pensiero,
migra
fra flutti franti
di mare ignaro
ai piè di quel faro
dove ardono
canicole di parole
e spume d’acque.

Drenate
le torri infedeli
di fardelli verticali,
spioveranno all’unisono
corrispondenze.

Mai più alterchi.

venerdì, settembre 15

Ti scrivo, questa volta. Ho smarrito ogni numero dentro di me, tra cui riponevo con cura quello del tuo telefono. Per istinto ho frugato nella memoria, alla ricerca del quaderno dalla copertina arancione. Non l’ho trovato, così come sembra essersi eclissata la penna. Quella nera. Quella unica. Così rimane questa tastiera, in cui compongo gli ultimi alterchi di parole. Guarda le mani come sembrano dissociate; si muovono da sole, come se osservassero una coreografia estetica.

Quel giorno, riversi nelle ombre lunghe della quercia, mi hai chiesto come è possibile cambiare. Non ho parlato, né risposto in alcun modo. Ci ho pensato a lungo, però. Mutare è assistere al proprio funerale; per compiacere un evento fallace, destinato all’estinzione. Siamo il risultato di innumerevoli compromessi, espedienti per galleggiare e non soccombere. A tratti, nell’istante percepisco gli eccessi sotto i polpastrelli. Inibisco il mediare per lasciare intatta ogni mediazione.

Qualcuno dice che “dovrei”. Ascolto. Ordino le immagini nella loro cadenza originale. Infine proseguo nel viale incerto delle possibilità, caricando ogni corda al limite.
Questo è il giorno in cui ti ho cerco. Quello in cui conta più il tono, che le parole. Porremo ordine nei nostri movimenti, ed in ogni cosa. Tieni questa mano, però. Avverti questi cenni di pioggia, e attendi il folgore; poi urla con me verso il cielo. Fino a quando avremo voce, e ci saremo ancora.

domenica, settembre 10

Questa notte ho capito. Nelle calure degli scorsi meriggi, ti sono stato accanto. Non osando alcuna parola, sono divenuto figura discreta, assimilata allo sfondo. Negli sguardi ho colto sussulti e fremiti. Non ho posto resistenza alcuna ad ogni movimento; fino all’assopir dei sensi.

Non sono le coste, né il mare, a pittare d’euforia il nero dei tuoi occhi. I sorsi di libeccio pennellano appena le tue gote, dopo ore a respingere brezze. I sospiri cadenzano questo tempo, sino al ricamo di affanni ritmati. E’ il momento in cui la sabbia scompare nel ventre del mare, con gli spazi assottigliati a lanciare solo tinte dell’azzurro e circoli d’orizzonte.

Sono i fari che catturano la tua anima; bastioni isolati, tra spume d’acqua frizzante. Unici e solitari; come diversa e irripetibile sei tu. Ad ogni curva, nelle punte di questa terra, collezioni molteplici queste torri d’abisso. Singolare ogni faro nel periodo di luce; come i tuoi occhi, così la lanterna rotea e riflette, incantando pescatori all’ormeggio.

Pietre e balate diverse, vanesie su fondali di rene o di scogli. Nell’intercalare tra bianco e nero, e nel misto di queste tinte. Come le tue vesti; diverse tra loro, nel supporre nuovi approdi. Isolati da mura di flutti eterni, negli echi con le terre a fronte di cieli dispersi.

Ti immagini guardiana di questi luoghi; ad assistere al miracolo di fiabe, suoni, rimestio di gabbiani e ululati di venti. Sola nell’ergere delle profondità; in un altare dedicato agli dei, con lo strale teso contro ogni umana perfidia. Nell’immergere il tuo corpo nelle acque di cristallo, senza bisogno di parole.

Ti ho quasi persa; quando della mia voce hai colto solo l’evocare. Così tra acqua e sale ho trasformato il mio fare, per non dialogare tra faro e costa. Per diminuire le distanze, e divenire unico suono in un corpo esclusivo.

Non guardiamo dalla costa il mare, né ascoltiamo venti, né carpiamo orizzonti. Ora siamo acqua e mare, spuma e sale, aria e vento, luce e orizzonte. Ora siamo.

giovedì, settembre 7

''Bisogna andare oltre''. Così sovente qualcuno argomenta, da non so quale pulpito, vero o presunto che sia. In preda ad illuminazione fulminante, questi pronuncia frasi sonore e ammonenti; intercala concetti che non colti presuppongono il declino nel pantano mobile della volgarità. Cos’è ''l’oltre'', un luogo? Forse un tempo? O ancora, una singolare miscellanea di eventi contrapposti? Da oggi vado alla sua ricerca; è ufficiale, ora lo sapete, così non ci sarà alcun evento al raggiungimento dello status. Per ora, invece, non mi rimane che immaginare, quindi ipotizzare, con dovizia di particolari.

Se c’è ''l’oltre'', va da sé, ammettiamo anche l’esistenza di un ''prima'' e la presenza demarcatrice di un punto preciso. Bisogna, quindi, individuare quest’entità fittizia, che non possiamo chiamare né luogo né momento: l’abbiamo già detto, non ha le fattezze singolari dell’una o dell’altra entità. Forse ne costituisce una miscellanea. La questione non è da poco, visto che nessun cavaliere riuscirebbe a guidare alcun cavallo al salto senza la presenza dell’ostacolo, che separando il ''qua'' e il ''la'', si ponga a confine. Per questo qualcuno nelle corse al trotto è proposto alla disposizione dei paletti zebrati bianchi e rossi, osservando scrupolosamente le disposizioni di una commissione deliberante.

Qui la cosa è diversa, non ci sono enti e certificatori. Il ''salto'' è soggettivo, a volte inavvertibile; così ci si accorge solo dopo di avere superato il guado, oppure di essere rimasto al di qua della vallata, vinto, avvilito. Non c’è presenza alcuna, in questo intimo viaggio, che tenda l’indice, per indicare l’evento. Si è soli con se stessi, senza neanche la mente a pensare; come belve ferite che istintive cercano ripari tra arbusti, cielo e scuro. Qui non drenano parole, e non servono concetti e accezioni; ci si muove nel filo della razionalità atavica delle cose.

Per amor dell’inspiegabile, è così che certe cose accadono; senza regie e retaggi.

Così osservo le nubi, per carpire e lacerare la pellicola opaca che occlude il cielo. Così bramo ogni filo di luce d’ogni stella, così che, accendendo te, possa riporre vita in me. Come l’ombra che scura appare tanto più è intenso il raggio, per lo staglio netto dei confini; e invece è ventre che si nutre del bagliore, riflettendo quel po’ d’azzurro che tinteggia l’animo d’ogni Uomo.

martedì, settembre 5

Si vaga, e ci sono voci che avvertono, richiamano e impazzano. Si scava, si sprofonda e si pensa; si cercano i nessi e i perché, quindi appaiono le certezze, che poi scompaiono ai primi venti, alle prime brezze, come ceneri di tabacchi lasciati sui davanzali. Aumenta il silenzio e ci si sente persi, ma il vocio di fondo è solo chiacchiericcio, in cui il pensiero è d’uso avere la base. Si parte con le certezze, ma il gioco di questo mondo e a perderle, allora si intarsiano altri percorsi e ci si compiace dell’essere alternativi. L’essere, a questo mondo non transita per i sentieri del ritorno, ma risuona nei vicoli dell’irreversibile. I rifugi in notti turbini sono vaghi, dove sentieri paralleli si muovono in segmenti da sera a mattina con interruzioni circolari. Ci si allontana con la mente, ma c’è ancora uno squillo, una chiamata, qualche sussurro ed un vociare vago. Tutti conduciamo questa danza impari, impegnati senza remore nei nostri alterchi. In fila per dipanare sorrisi, e scagliare qualche parola; infine con il far di fioretto per scoccare certezze. C’è un inizio e c’è una fine, ed in mezzo un intera esistenza, in cui si corre, si va, si deve; poi ci si ferma in un punto sbattuto in faccia con solenne assestamento. Per questo non penso ad amici, ma di amici sto scrivendo; per questo non descrivo vene parentali, ma ne prendo il tono; per questo non v’è cenno di compiti e professioni, ma questa è la precisa descrizione del loro distacco.
L’altro dì, lo scivolare giallo di luci era in salita su lastre consumate di marmo, la direzione era illogica, e si rivolgeva al cielo. Ogni parete polverosa colorata ne conteneva i disequilibri, smorzando gli echi riflessi dai solchi lucidi; per curve e per ritorni, innalzando nell’attimo di un gradino la propensione allo scuro. Qui ho sostato con la mente; e l’urlo è argomento d’aria perso nel nulla recitante parti d’aria sospese. Così, come punti, in segnali dispersi disseminati peri il globo. Cerchi di corrispondenze sordidi, in armonia con l’universo; con il silenzio. Poi via senza retaggi, senza perché, nell’armonia vaga della brezza di notte.

martedì, agosto 22

Due lampade appese, lascive di luce gialla verticale, tinteggiano mura, scorticature e pietrisco della vanedda. Elettriche vampe, discrete e vigili, ne delimitano gli opposti, lungo un calpestio di sette case per lato. Ponte da una via all’altra, la vanedda congela i ricordi di lustri passati. Gli scaloni ai piedi d’ogni uscio, in inspiegabile numero dispari, allo sguardo evidenziano famiglie e altrettanti balzelli da passare. Perché non v’è tratto franco all’osservare; dove ognuno sa e sussurra appena dietro la cassina; armatura di listelli di legno per fronteggiare mosche da un lato e svicolare sguardi dall’altro. Le mura d’ogni casa, quasi toccano quella a fronte; il riecheggio di voci si rincorse nel ruvido d’ogni parete, terminando nel fondo in urla smorzate. Arabe le vanedde, così rivendicano nobiltà; così il sole riesce a vincerle scorrendo solo a perpendicolo. Nel breve tratto del solleone, mani spargono acqua dal vacile verso terra, per attutire la canicola e preparare le frescure dell’ombra imminente. Le correnti ascensionali d’aria armano il chiacchiericcio del nuovo giorno. Occhi scuri di dattero s’incrociano, ora odori di menta e limone danzano nei preparativi di the e granite.
Resta l’afa, e soffi d’aria incostanti; non si racconta la vanedda di notte, perché nel rigo emergono scorci di ricordi. La voce m’insegue; e io sono bambino; corro al trotto, mi rigiro raggiunta la fine. C’era un riso riverso al cielo; una canotta bianca in tinta con la barba canuta e incolta. Voce che viene, voce che va’.

martedì, agosto 15

Non scrivo per me; con leggerezza ed un filo di tensione, descrivo ciò che i meandri immaginano. Da tempo penso a questo vivere per assenza, in quest’accordo di note tirate da un filo sottile di seta. Nei frastuoni, quando gli altri impersonano l’ancheggiare voluttuoso dell’ignaro, passa e penetra quest’idea trasparente del ''potevo esistere''. Ecco i sospiri e gli allontanamenti, le facce molteplici e scure, con esigenze di stanze lontane ai frastuoni della voce. Qualcosa è successo, è evidente; questo me lontano e latente che emerge. Trascorrono così le decadi, che sono mutazioni ed immagini altere; un seme trapela da pensiero in tensione. E quando osservo e pasteggio fraseggi di paesaggi statici; ed invece il moto è dell’agitazione. Ci sono spot che vogliono emergere, che non chiedono e s’impossessano della navigazione a vista. I minuti diventano eterni e le freddure emergono dai sopori della notte. Dimenticare, additare ''il sogno'', dire ''basta!'', leggere libri di centinaia pagine d’umore. Poi osservi gli angoli desto e si appiccicano rugose le maschere, ci si interroga nell’intendere la fine dell’arginare. Respingere, per anni cupi; dissimulare per svilire condizioni imprescindibili.
Siamo tanti e ne avverto il brivido; forse in cose che furono, chissà, o che in propensione avverranno. Non bisogna credervi, non necessariamente; ci sono processi che avanzano privi dell’altrui consenso. E se fosse un messaggio? E se fosse un vociare di una mano sulla fune dell’esistenza? Nelle acque elido gerbidi i sensi; nel mescere d’aria e sale, nel colpire impavido di flutti lunghi di fondali torbidi. Così alzo un braccio al tramonto, per l’osservare d’oro palmo e dita. Per un attimo dimentico e rido, imperterrito di sarcasmo e difese. Sballottato, compenso ogni tremore, ricaccio in gola all’orizzonte terrori d’oblio. Galleggio e navigo in sospensione liquida; ora con entrambe le braccia a vittoria, paralleli ai fondali, con gli occhi socchiusi ed il ghigno del vezzo di chi tenderà la mano per l’avvio alla tenzone. E su, e giù; sommerso.

lunedì, agosto 14

Facce e sguardi, nello scandire di pose; posture ritte, a futura memoria, circondate da rigidi drappi. Grigi orpelli, bordati dalle varianti del bianco. Tessuti cadenti, sotto ginocchia incartate di tremori disuniti; addomi tenui, rigonfi d’arie e credulità infami; spalle ritte, per la sospensione della gravità sbordante dal capo. Mani su mani, e dita ritorte su avambracci inarcati di cerimonie. Parole vacue, appena proferite per le ricorrenze della festa e le attese d’oltreoceano. Occhi incrociati sull’artefatto e sullo scenario, senza il tempo del ponderare. Carte su carte, e rigori e bagordi; quanti scarti e quanti accenni, quanti rosolati umori; e inosservanze; e vaghi sorrisi. Vi muovo, così, vaghi d’abiti e luccichii di scarpe. Confondo ricordi; in queste parole inespresse; ma sento i vocii fuori scena, percepisco ansie e sensi. Centinaia, migliaia di alterchi; fiumi di oppressioni sulla pelle, filtrati da aspirazioni calpestate. E sentir tutto su quest’epidermide, indurita dai riflussi e gli alterchi del sole. Insonnie divenute perpetui film notturni; quando tutto torna, ciò che non è disperso. Impronte del viso, viste e dimenticate; raccolte come palesi foglie d’autunno, trasportate dalle colle dei venti freddi. Attimi ignari che si moltiplicano in ogni istante, con nuove immagini per ricolmare il cesto. Valzer uno sull’altro, d’inanimato fulgore; corvini di scuro, sguardi di rado emergono. Oltre pose, i tempi e le distanze; avverti allora disagio e presente. Caso di spose di bianche livree; di militi da ritte virtù; di Nostromi d’altrui senso.
Nel compenso e nella folla alberga il mio plaustro; senso d’amico ch’osserva su file dispari, in alto; e sorseggi di risa femminine nelle rime del basso. Osservo nodi scarni di consunte cravatte e camice candide nei riflessi del viso. Sguardi; uno per uno tra le decine; volto, ancora un altro, sino a trovare ed ipotizzare. Gente d’ombra silente ai fianchi d’orde moventi, in scontri d’alterchi nella miscellanea del tempo. Qualcuno sussurra; qualcuno s’avvicina. E non c’è tempo; e non c’è scelta; e non c’è tregua.

martedì, agosto 8

Ascolto, fiuto, parlo e mi muovo senza averne coscienza; tutto succede al di fuori di me stesso. Mi rivedo in qualche foto colorata, ma non sono io; non riconosco alcuna delle azioni possibili. Le pose che scorrono innumerevoli e i momenti del fare; mi ritrovo ad invidiarli. Osservo un volto scurito da barba nera striata e canuta; la concentrazione delle grandi cose, e la dedizione degli eventi che rapiscono. Un quadro, una situazione da incorniciare. Mi chiedo se mai sarò capace delle stesse emozioni; a quella barba sottrarrei gli occhiali, per osservare dalla stessa prospettiva. Inutile ancora una volta; una maschera adagiata non spegne la brace. Le parole scivolano lievi, come liquidi incompresi; osservo una voce parlare, conferisco con gli altri e all’unisono anelo domande a me stesso. Improbabile nei modi, alla frase elido la conclusione ed epiteto d’entusiasmo. Con occhi e viso assumono la posa della stanchezza; non v’è riposo che possa smorzare l’ansia d’ignorare. Parlo fuggendo; remoto ogni luogo occluso. M’incammino nella favola di tresche e sensi, con l’abbandono del naufrago all’approdo d’acque basse, dopo sussegui fondi d’oceano.

giovedì, agosto 3

Il raggio
m’osservi!
ch’io figlio
scivolai
tra rene
di sale
d’arene
d’acque
profonde
d’ombre
di piogge
peste.
Con voce e tono; poi il far dell’avambraccio e la mimica del corpo, infine le risa nella tinta sottratta dei capelli. Con tutto e con questo, in quel volgere di minuti, di lastre scure e trasparenti e lettighe e sonde. Il momento dell’ascolto sommesso, poi il segno del divario con l’uomo che emerge. Tre parole, poi tre ricette ataviche ed essenziali.
Acqua; nei circoli d’ogni parete, nei cerchi di correnti, nelle bordure umide dei ricordi. Tepori d’ansie e vapori, nei pietrischi drenanti di piogge attese. Zampilli nell’incrociare assurdo di fontane d’Agosto, in vasche gialle in cui emergono monete bronzee. Pozzi artesiani di voglie di scavare la terra, per aspirare gocce ed umori.
Sale; nei cristalli bianchi sgretoli della pelle, quando le arsure spinte lasciano ruvidi tratti. Come nei rivoli asciutti degli occhi. Di seccure, come nelle distese rosso acceso lungo le banchine delle memorie, quando gli effluvi superavano gambi di sedie incolonnate. Polveri, nel verseggiare roteato di certi mulini, nel diffondere delle tinte del bianco.
Sole; elemento cardine che anela, dirige e sistema ogni pulviscolo; in questa terra in cui noi uomini viviamo d’attese sotto gli effluvi scomposti. Quando ogni ricordo passa e trapassa per tazze di porcellana con acque ed oli galleggianti. Allora, e poi chissà quando, bisognava togliere, elidere gli effetti.
Terra che ricorri nella mia mente; immaginario, limite e potenza di questa mente che sorvola nelle pieghe dei secondi. Quando non c’è tempo per pensare e balbetto rendendo l’immagine dell’indeciso, e sono altrove, e sorvolo sopra muretti a secco per carpirne l‘ultimo segreto. Quando i gialli dell’indefinito, di verdi risucchiati d’acqua, nei trattamenti di sale e sole, effondono sospiri d’essenze d’erbe ancestrali, rilasciati tra i montarozzi di pietrai bianchi. Il pensiero passa e sospende sassi, seminando punti come alterchi nel cielo. Poi arrivi nella curva, giù per la calata, e non c’è niente ed altro.
Osserva lo sfiorare dei piedi, paralleli e composti, come nello riempire caselle disegnate da segni inesistenti delle dita. Pensa le gambe ritte per quel che si può, e poco importa; definiscine i rigori e le stabilità. Qui, Padre, con il busto e con il resto del corpo a manifestare che qualcosa avrò capito. Nell’osservare l’attacco e lo sfondo; nell’aspettare l’alto a mezz’aria. Queste mani nel lancio del comprendere, nel tentativo immane di cogliere e sintetizzare.
Ci sarò, vedrai, a compierne il momento; vi aspetto, vedrete, tutti in adunata, a dare risposte sin ora intentate.
Clack, clack...poi clack. Così; per la vita.