C’è attesa nelle parole, c’è ansia in ogni istante che cola dalle pareti della mente. Questo è un giorno come gli altri, e da sempre non è mai uguale. La pura condizione volitiva non mi appartiene, mi sfugge l’attimo. Non vivo, perché sono altrove, ma esisto in un’altra dimensione, costantemente sfasata nei ritmi e nelle movenze. Non intesso rapporti nell’attimo, semplicemente non ci sono; ci sarò, forse, ma in quell’alambicco che il ricordo filtra e rigenera.
Una fuga altrove, dove intesso scenari filati in telai mai visti, che mi scavano la pelle e mi scorrono, arteria dopo arteria, sino al più occluso meandro dell’io. A volte, spioventi sbarre, tali rapimenti, smorzano ogni tenue respiro, dove resto spettatore disarmato, avvinto da uno stridio vorace, che non cessa perché non è mai iniziato. Ma quando fuori tutto diviene troppo gelido, e non rimane che il letargo, quelle turgide spranghe diventano d’uopo, offrendo allettanti congedi dal tutto. Non disprezzo le semplici righe, frutto del genio, limpide e scorrevoli come solo l’acqua di fonte può esserlo. Lì, però, in quei luoghi pastello rassicuranti ai più, non vi abito io, è come il giusto indirizzo su una bianca e striata missiva per un destinatario scomparso, o mai esistito. Quei tratti di chiara vita, che a volte leggo, che spesso invidio e per cui sovente sospiro, non potrei mai trasporle in quelle mute tempeste d’acque sopite che sono le mie righe. Scrivere è un viaggio, come spesso il sogno, ma, se così è, sono il più statico Ulisse che la storia abbia mai perpetrato. Abito nei ritagli, nelle pieghe sommesse, dietro le curve d’ogni cosa e accanto l’ombra dell’ultimo platano. In combutta costante, cerco il sito che sfugge, quel qualcosa, quell’istante in cui rivivo ancora. Basta un libro, con un sincero romanzo, un’immagine stranamente illuminata, un sapore greve ma forte e deciso o solo un pensiero che varca la soglia, ed ecco che lì, attraverso, ricompaio stanco nei passi a scrivere di me o di ciò che mi cinge. Non c’è lacrima, non c’è riso, soltanto spioventi parole da ingoiare in un sol sorso e poi aspettare, e poi capire. O forse sentire, solo quello.
Una fuga altrove, dove intesso scenari filati in telai mai visti, che mi scavano la pelle e mi scorrono, arteria dopo arteria, sino al più occluso meandro dell’io. A volte, spioventi sbarre, tali rapimenti, smorzano ogni tenue respiro, dove resto spettatore disarmato, avvinto da uno stridio vorace, che non cessa perché non è mai iniziato. Ma quando fuori tutto diviene troppo gelido, e non rimane che il letargo, quelle turgide spranghe diventano d’uopo, offrendo allettanti congedi dal tutto. Non disprezzo le semplici righe, frutto del genio, limpide e scorrevoli come solo l’acqua di fonte può esserlo. Lì, però, in quei luoghi pastello rassicuranti ai più, non vi abito io, è come il giusto indirizzo su una bianca e striata missiva per un destinatario scomparso, o mai esistito. Quei tratti di chiara vita, che a volte leggo, che spesso invidio e per cui sovente sospiro, non potrei mai trasporle in quelle mute tempeste d’acque sopite che sono le mie righe. Scrivere è un viaggio, come spesso il sogno, ma, se così è, sono il più statico Ulisse che la storia abbia mai perpetrato. Abito nei ritagli, nelle pieghe sommesse, dietro le curve d’ogni cosa e accanto l’ombra dell’ultimo platano. In combutta costante, cerco il sito che sfugge, quel qualcosa, quell’istante in cui rivivo ancora. Basta un libro, con un sincero romanzo, un’immagine stranamente illuminata, un sapore greve ma forte e deciso o solo un pensiero che varca la soglia, ed ecco che lì, attraverso, ricompaio stanco nei passi a scrivere di me o di ciò che mi cinge. Non c’è lacrima, non c’è riso, soltanto spioventi parole da ingoiare in un sol sorso e poi aspettare, e poi capire. O forse sentire, solo quello.
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