domenica, settembre 1

Ricordo un balcone, undici piani stagliati sul sacco, uno dei tanti, che hanno sprofondato Palermo. Non so se sia normale, o solito, ma ogni evento che ha violentemente cicatrizzato le angosce di certe speranze agonizzanti, sono rimaste icone scolpite nella mia mente. Anno dopo anno non cambia niente, sempre quel fotogramma nitido e assurdo, mutano, quelli si, le didascalie, miei pensieri, le speranze mal riposte e per le poche risposte. Quel giorno, però, era tutto surreale, la luce calante, una città che respirava affannosamente i suoi stessi vagiti, le voci vaghe, la regolarità che distruggeva l’ansia. Solo un giorno era passato dal quel tre Settembre e tutto era destinato a rimanere indelebile, per la Sicilia stremata di rosso, per la triste storia d’Italia, e per me, giorno d’inizio d’una goffa coscienza. Domenico Russo, Emanuela Setti Carraro, Carlo Alberto Dalla Chiesa, il generale, erano stati trucidati, e la città ancora faticava a carpirne il valore. Troppi morti, con troppa frequenza, infinite commistioni tra Stato e mafia si erano consumate, Palermo non poteva che ascoltare sgomenta, la vista, da anni, era stata bandita. Nelle tiepide notti di via Libertà, poche settimane prima da quel tragico Settembre, le vetrine della Gioielleria Giglio venivano infrante come impotenti cristalli di zucchero. Niente era stato derubato, non un solo gingillo venne a mancare, ma Palermo, turbata da sempre, per l’evento non si nera scomposta. Troppi eventi negli anni hanno violentato Palermo, generando il mostro di una norma deforme e diversa d’ogni altra città, per cui bastarono pochi giorni e il ricordo appannato di quei cocci di vetro passò in fretta.
Dalla Chiesa, il generale, era riapprodato in Sicilia dopo l’omicidio di Pio La Torre e del suo agente di scorta Rosario Di Salvo, ma di questo, purtroppo, ricordo poco, se non quella epica legge – la Rognoni/La Torre - che consentendo la confisca dei beni alla mafia ne falciava le gambe, e per questo gli falciarono la vita. Troppo giovane ancora per capirne il valore, raccolsi solo scarne parole, nulla tra la gente comune, e poco, ma quanto basta, a scuola, quando la mia splendida prof. d’italiano storcendo il naso proferì: I tuoi vanno alla manifestazione per Pio La Torre? Ma allora sono comunisti?
TA TA TA RA RA TA TA…terribili raffiche esplose, non vigliaccamente sul generale, ma su Giglio, la gioielleria, e la vetrina venne giù, in un sol colpo: Il primo kalashnikov era arrivato a Palermo, fu quella la prova e anteprima della sua efferata capacità distruttiva, prima che si aprisse il sipario e tre vite, il tre Settembre, ne fossero fagocitate. “Qui muore la speranza dei palermitani onesti”, questo comparve in quel trancio, oramai d’obbligo sconnesso, di via Carini, ma io ero giovane e la speranza, la mia, era ancora vergine ma bastarono dieci anni, Falcone e Borsellino, per farmi entrare di diritto nell’esclusivo club dei reduci dalla speranza morta in quei dì.
“Mentre a Roma si parla Sagunto viene espugnata”. Queste le celebri parole del cardinale Pappalardo in una gremita chiesa di San Domenico, tra monetine che scacciavano politici e politica, ritenuti, a torto e ragione, complici di quell’eccidio. Caro cardinale, allora non ebbi modo di darle risposta, che lei per altro da nessuno ha cercato, ma oggi lo devo: a Roma c’era la sua casa, il suo quartier Generale, un Papa che di proclami abbondava tranne, poi, a rivoltar lo sguardo, e a Sagunto, l’offesa Palermo, c’era lei che mai seppe coprire con il suo corpo e con il suo sguardo e che mai in futuro se ne ebbe a giovare. Un’omelia non vale un passo, uno per ogni cento di quei giorni, non vale una sola parola, proferita nei giusti momenti e, principalmente, prima che il diluvio devastasse.
Per il resto ciò che mi rimane è l’ingenuità di quegli anni, quando quel quattro Settembre, in quel davanzale rovente di quel balcone figlio del sacco di Palermo pensai: Questa volta mandano Sica, lui sì che metterà tutto a posto. Quanto ancora avevo da capire, intento questo che non potrò mai onorare.