venerdì, ottobre 18

Aspetto incurante l’ora prevista, snobbando l’attesa, centellinando i minuti, portando a termine i miei riti. Incastonati uno dopo l’altro, le abitudini, gli oggetti, alcuni libri, qualche disco; e i ricordi, le attese, le ansie, le fobie e pochi sguardi, fedeli e aderenti compagni. Ruoto sul mio asse, mi abbasso osservando uno scalino dove a volte mi adagio e mi perdo nel vuoto. Gli stessi moti, lo stesso andamento, la stessa metafora su scene diverse, è andata così e così, credo, andrà per un po; non che lo sappia o che lo abbia deciso – intenzione di per se inattuabile -, ma così vanno le cose, e non credo di far eccezione. Vado avanti, meticoloso, distratto, mai in linea retta, spesso vagamente rotante, e completo, quello sempre, il mosaico rituale, la formuletta dell’essere: il mio. Poi parto, transito, sospiro, tardo ed infine arrivo; scendo dal mezzo e salgo già incosciente. Si vive in quegli attimi, si vive sempre perché vivere è un’azione involontaria, non la controlli, lo fai e basta, spesso senza troppi “perché?” e “dove?”; unico intoppo l’Evento, e riparte la clessidra. Ritorno all’inverso, sui miei passi, come per un eterno gioco dell’oca, rimetto, lo voglio, disordine, su oggetti, pensieri, ricordi e riti. Non devo, non posso lasciarli “armati”, servono solo nell’emergenza. Se sono arrivato qua, se queste righe sono già sfuggite via lisce, per la gravità delle dita sulla tastiera, so bene che ogni giorno c’è un’emergenza e bisogna, quindi, sfregare tra le mani qualcosa, che mi dia il Là, che mi lasci immaginare la mia stella polare. E’ un mondo avvolto di simboli, e i simboli non parlano, sono lì, distesi e casuali, anelano corrispondenze, che io bramo ed inseguo in ogni istante che per me è l’Istante. In Te, Te che sai.