Ore in cui ci si fermava, carichi tra due pareti di vetro; soste per la meta. Ansie, sospiri, tutto per quei tappeti rossi, per quei cerchi, per quella gente che ondeggiava stretta in quei vocii del tempo quando tutto accade. Vorresti fermarti o fermare, ma l’aria avanza e sospinge. Il poco d’umido già secco in gola per un fiato bloccato dal deglutire, e poi un altro, e poi la mano, un fischio, e vai. Così in fraseggi corti d’ore, e la rabbia e lo smarrimento e i perché.
Un momento in cui tutto impallidiva d’un tratto, che di sponda in sponda smorzava l’eccitazione frenetica. Pochi rumori articolari, qualche passo in ritardo, vita proveniente da fuori, ma lì dove eravamo si allargava lo spot. Arrivava; una calma sovrumana senza residui o ritardi. Un passo lento, scomposto, e la maschera permanente dell’impostura in viso. Un serafico latente, sotto un fischio ad aprire il sipario, una mano prominente sotto un capo chino a sorvegliare la rotula dritta fuor di norma. Fabio insomma; e l’aria era ferma, e l’avversario catalizzato. Niente fatica, arsura o accenno a sforzi e pressioni. Movenze nel tempo della sicurezza, senza balzi, senza il far di saetta. Non c’era ostacolo, non c’era forza o astuzia, tempo e spazio erano stregati, piegati al volere. Allibito il fischietto, allibite platee, visi sparuti e incantati. Così si arrivava alla fine senza eccessi, senza plateali estorsioni, nel lento accompagnamento che solo lui poteva sfibrare.
Quel giorno ero lì, alla stazione dell’ennesimo trionfo, noi sul binario che tornava giù nel profondo Sud di tutto, e lui costantemente all’opposto. Ancora un rilancio, ancora un dippiù, l’ennesima rinuncia dell’indefinita lacrima smarrita. Noi tutti, giovani sbarbati scolari alla fine del viaggio e lui all’ennesimo rilancio.
Non deve aver visto fine, Fabio, lui avvezzo alla normalità e lanciato, a dispetto dell’irremovibilità, in corse ed eccessi. Quel giorno, solo dopo lo ebbi a sapere, ridiscese da quel treno, salutando con una mano invano, padre e sconforto.
Tiepido di viso, all’accenno rossore, avrà arcuato le guance per respirare vapore e locomotore; avrà accennato un sorriso; carico infine, libero per la vita e per i giorni a venire.
Un momento in cui tutto impallidiva d’un tratto, che di sponda in sponda smorzava l’eccitazione frenetica. Pochi rumori articolari, qualche passo in ritardo, vita proveniente da fuori, ma lì dove eravamo si allargava lo spot. Arrivava; una calma sovrumana senza residui o ritardi. Un passo lento, scomposto, e la maschera permanente dell’impostura in viso. Un serafico latente, sotto un fischio ad aprire il sipario, una mano prominente sotto un capo chino a sorvegliare la rotula dritta fuor di norma. Fabio insomma; e l’aria era ferma, e l’avversario catalizzato. Niente fatica, arsura o accenno a sforzi e pressioni. Movenze nel tempo della sicurezza, senza balzi, senza il far di saetta. Non c’era ostacolo, non c’era forza o astuzia, tempo e spazio erano stregati, piegati al volere. Allibito il fischietto, allibite platee, visi sparuti e incantati. Così si arrivava alla fine senza eccessi, senza plateali estorsioni, nel lento accompagnamento che solo lui poteva sfibrare.
Quel giorno ero lì, alla stazione dell’ennesimo trionfo, noi sul binario che tornava giù nel profondo Sud di tutto, e lui costantemente all’opposto. Ancora un rilancio, ancora un dippiù, l’ennesima rinuncia dell’indefinita lacrima smarrita. Noi tutti, giovani sbarbati scolari alla fine del viaggio e lui all’ennesimo rilancio.
Non deve aver visto fine, Fabio, lui avvezzo alla normalità e lanciato, a dispetto dell’irremovibilità, in corse ed eccessi. Quel giorno, solo dopo lo ebbi a sapere, ridiscese da quel treno, salutando con una mano invano, padre e sconforto.
Tiepido di viso, all’accenno rossore, avrà arcuato le guance per respirare vapore e locomotore; avrà accennato un sorriso; carico infine, libero per la vita e per i giorni a venire.
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