sabato, febbraio 7

Balaustre lontane incuranti del tempo, fredde d’acqua tra folate di vento. Ancora lì, quella strada e il vociare sperso, le movenze rarefatte. Sguardi tiepidi di pennellate calde di luce tenue, poi stanze appena scure per ondeggiare parole lente e sorseggiate. Tutti presenti; progenie, fantasmi ed alpaca di ricordi. Un piccolo selciato e un immenso paese, universo del tutto dove oltre il primo scivolo scorreva il mondo. E c’era tutto, e non mancava niente; ci si soffermava tra tappeti neri puntellati nell’aria o scorci a macchie verdi dove deseppellire tesori. Terre incolte oltre porte, dove grandi fusti d’albero lenivano arsure, e fronde immense dove poter scomparire per istanti eterni di cicaleggi.

Svanisci, passa latenza, libera e libra questa mente troppo ingorda per soffermarsi nel soffio d’un momento.

E’ stato bello Pietro,

perché ogni lacrima accompagnava un panino d’origano e umori, perché c’era una madre con cui poter ridere e aspettare qualcuno, forse un padre, dell’eterno arrivare. Nelle pergole o nelle tegole dell’azzurro spiovente, dove nessuno poteva raggiungerci, vite si svolgevano piene di sogni e lacrime imburrate di vita.

Un padre è tornato e una madre svilisce tra ricordi e acredini contingenti, ora abbiamo glissato contro l’ennesimo bivio, ora che il tempo ci ha sperso presi dal vogare, siamo statici e scuri tra accenni e finte.

Nel buio
carpisci il senso,
avverti lesto l’assenza
solo Fato di cui aver paura,
fagocita il silenzio
muovi i passi
ritma sicurezza e latenza.

Notte,
madre di cui sentir l’ardura,
veglia su ogni impostura
tra le pulsioni che ci diede la natura.