sabato, ottobre 25

Succede che mi faccio delle domande; non importa, ''e l’asfalto tuona''. Vorrei gridare; non lo faccio, ''tutto s’azzera''. Aizzo il turbine; vivo però nella melma, ''il folgore acceca''. Piango qualche lacrima; quella del silenzio, ''e spazza via''.
Dopo certi atti tutto appare inutile e volge all’uno; che è il tutto l’universo. Questo è l’essere siciliano che sento. Arti tesi a strozzare il Fato, senza esclusione di colpi, senza pietà, senza lesinare vita. Contro tutti, al di là del nome che paventa, contro tutto, foss’anche la Fine. Solo noi decidiamo di demordere, di arrenderci, ma a mani basse. Solo noi. E se lo facciamo è perché c’è qualcosa di più grande in cui crediamo d’avvero sino alla disfatta, se fosse necessario. Disillusi dalla nascita, disincantati dagli eventi, offesi dalla comune morale, e avvinti dalla passione a prescindere, che volge ora al bene, ora al male.
Fratello, che un giorno incanalasti un’altra vita, non posso che amarti profondamente, per questo, solo per questo, ti scaglio tutto l’odio che posso. Nessuno, nessun altro che me, siciliano, può capire, può sapere. Vivere in quei lembi di tre punte è una condanna, non certo un privilegio, come il pensare cerebrale e la perdizione che mi annovera. Per questo, perché so cosa vuol dire lottare, carpisco il vuoto che lancina, quello degli sguardi persi dei bambi dei sobborghi; quelli che, cedendo all’ignobile, continuiamo a chiamare Zen o Cep. Figli e amici miei, perfetti sconosciuti, ma miei da vivere dentro; gente spersa da colmare in un abbraccio. Per questo li amo tutti, come amo tutta la Palermo della mia mente, per questo ho compassione per chi nasce con la pistola in mano. Perché tra tutte le colpe che ci schiantano non v’è, di certo, quella dei natali.
Non mi muovo oggi, non grido, non m’agito; taccio. Per la mia rabbia enorme mi servono giganti; non certo nani d’animo, core e umiltà.

''Scusa,
l’ultima parola,
poi un volo senza fine
d’una scheggia a morte.''