lunedì, ottobre 21

In quella via Maqueda, dove la storia delle città di Palermo nacque e si dipanò nei secoli di vicolo in vicolo, la libreria Feltrinelli era uno dei miei luoghi preferiti. Tra i respiri lenti e affannosi della borgata, che nel sottofondo di cupi rumori senti, puoi disperderti tra scaffali densi di colori e libri, e tra gli scritti viaggiare è d’obbligo. E’ questo uno dei pochi momenti in cui le ore scorrono veloci, lasciando alle spalle il sospiro di dover impiegare il tempo. Tra i testi un giorno mi trovai tra le mani, con una casualità mai fine a se stessa, “Il poeta è un fingitore” una raccolta di testi, che allora credetti massime, di Fernando Pessoa proposte dalla sapiente mano di Tabucchi. Da quell’anno, sarà stato il ’97, quel poeta atipico, quegli inni all’amore che ritrovi solamente criptati tra le righe, mi scoprirono. Si, perché ho sempre avvertito che Pessoa e i suoi numerosi eteronomi fossero penetrati nel mio pensiero per una corrispondenza biunivoca. Una sorta di opera tenue ma continua nel tempo, verso dopo verso. Quello che ho sempre trovato unico in questo poeta portoghese d’eccellenza, è la capacità di coniugare un realismo freddo, e a tratti lancinante, con più dimensioni oniriche frutto di un lucido sonno. La capacità di dialogo con gli elementi più assoluti della vita, quelli meno materiali, ha dell’incredibile; l’intenzione palese di sviscerare ogni inganno, pur nell’esigenza di viverlo, ha dato vita ad un autore unico a cui il mio pensiero spesso attinge.