Passeggiare contro il rosso di quelle cupole, poi distrarre lo sguardo inclinato dal pensiero e rarefatto dallo scirocco. Ricerca di un posto tra i perché nella mente; a destra, giù un fondo, e un sibillino interrogativo appena manifesto. Alcuni passi in circolo per i cortili, dietro sbarre su cui si intravedono piloni color della castagna, dove qualcosa è avvenuto. Si rimane un attimo interdetti prima di sorseggiare il ritmo e l’enfasi. Così si assorbe tutto a Palermo; spazi, interstizi, tradizioni nel sangue ancor prima che storia o architettura. Bastioni, altari, porte e balate; fredde balaustre lisce e bianche, come le anime inquiete che drenano nei rivoli sotto i vicoli del Cassaro. Tremanti e insolventi, gli insavi, nel Corso che ridiscende all’insaputa, per quella Cala che raccoglie gli umori tetri degli intenti cupi. V’ho sperso effluvi salini, tra quei rosoni gialli d’inedia, gridando entro i respiri nei cori di altari grezzi rivestiti di mattoni frastagliati. Del puzzo pregnante dei cortili dimessi, saturi come cloache a ciel aperto, ho amato gli splendori d’un tempo, come dei mercati il vociare in stile di musiche sinuose misto ad arsure arabe.
Così ho nelle falde un marchio a fuoco, emblema controverso d’una appartenenza che pulsa nelle vene; stupito, offeso a morte, ma con l’orgoglio dell’immane urlo contro il cielo.
Ovunque sia.
Così ho nelle falde un marchio a fuoco, emblema controverso d’una appartenenza che pulsa nelle vene; stupito, offeso a morte, ma con l’orgoglio dell’immane urlo contro il cielo.
Ovunque sia.
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