venerdì, settembre 15

Ti scrivo, questa volta. Ho smarrito ogni numero dentro di me, tra cui riponevo con cura quello del tuo telefono. Per istinto ho frugato nella memoria, alla ricerca del quaderno dalla copertina arancione. Non l’ho trovato, così come sembra essersi eclissata la penna. Quella nera. Quella unica. Così rimane questa tastiera, in cui compongo gli ultimi alterchi di parole. Guarda le mani come sembrano dissociate; si muovono da sole, come se osservassero una coreografia estetica.

Quel giorno, riversi nelle ombre lunghe della quercia, mi hai chiesto come è possibile cambiare. Non ho parlato, né risposto in alcun modo. Ci ho pensato a lungo, però. Mutare è assistere al proprio funerale; per compiacere un evento fallace, destinato all’estinzione. Siamo il risultato di innumerevoli compromessi, espedienti per galleggiare e non soccombere. A tratti, nell’istante percepisco gli eccessi sotto i polpastrelli. Inibisco il mediare per lasciare intatta ogni mediazione.

Qualcuno dice che “dovrei”. Ascolto. Ordino le immagini nella loro cadenza originale. Infine proseguo nel viale incerto delle possibilità, caricando ogni corda al limite.
Questo è il giorno in cui ti ho cerco. Quello in cui conta più il tono, che le parole. Porremo ordine nei nostri movimenti, ed in ogni cosa. Tieni questa mano, però. Avverti questi cenni di pioggia, e attendi il folgore; poi urla con me verso il cielo. Fino a quando avremo voce, e ci saremo ancora.

1 Comments:

Anonymous Anonimo said...

Spero tanto che la persona a cui è diretta questa lettera la legga con la stessa emozione con cui l'ho letta io.
C'è tanta sincerità dentro e spero per te che lei (o lui?) lo comprenda.

9:07 PM  

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