martedì, agosto 22

Due lampade appese, lascive di luce gialla verticale, tinteggiano mura, scorticature e pietrisco della vanedda. Elettriche vampe, discrete e vigili, ne delimitano gli opposti, lungo un calpestio di sette case per lato. Ponte da una via all’altra, la vanedda congela i ricordi di lustri passati. Gli scaloni ai piedi d’ogni uscio, in inspiegabile numero dispari, allo sguardo evidenziano famiglie e altrettanti balzelli da passare. Perché non v’è tratto franco all’osservare; dove ognuno sa e sussurra appena dietro la cassina; armatura di listelli di legno per fronteggiare mosche da un lato e svicolare sguardi dall’altro. Le mura d’ogni casa, quasi toccano quella a fronte; il riecheggio di voci si rincorse nel ruvido d’ogni parete, terminando nel fondo in urla smorzate. Arabe le vanedde, così rivendicano nobiltà; così il sole riesce a vincerle scorrendo solo a perpendicolo. Nel breve tratto del solleone, mani spargono acqua dal vacile verso terra, per attutire la canicola e preparare le frescure dell’ombra imminente. Le correnti ascensionali d’aria armano il chiacchiericcio del nuovo giorno. Occhi scuri di dattero s’incrociano, ora odori di menta e limone danzano nei preparativi di the e granite.
Resta l’afa, e soffi d’aria incostanti; non si racconta la vanedda di notte, perché nel rigo emergono scorci di ricordi. La voce m’insegue; e io sono bambino; corro al trotto, mi rigiro raggiunta la fine. C’era un riso riverso al cielo; una canotta bianca in tinta con la barba canuta e incolta. Voce che viene, voce che va’.