domenica, settembre 8

Non ho mai suonato uno strumento, uno di quelli che non servono solo per far musica, ma per sentirla. Immagino gli ottoni, già eleganti nel nome, con quei gialli caldi che avvicinati alla pelle ti fanno sentire vivo, o ti danno un motivo per qualcosa. Quella custodia di pelle nera, da portare sempre con se, da pulire, da lisciare per sentirne le rughe, è un pezzo inconsapevole di fede, la sicurezza sottobraccio, la certezza che qualche nota, almeno li, ancora c'è. Ho acquistato un'armonica affinchè nelle tasche riponessi l'antidoto, e da allora accarezzo un pianoforte, cosicchè nella mole potessi confondermi, e, tra i due estremi, l'ottone mi appare come il tocco mai pensato, per non averlo mai sognato. Uno strumento, a volte, è una via per la solitudine, un punto di accesso, un talismano da sfregare tra le mani per esorcizzare le ansie. Non ho mai imparato a suonare, e, quindi, non saprò mai se serve a qualcosa, quel che mi rimane è l'immagine di luci propense e di forme che delineano suoni. Per captare il limite che isola la mente e unisce il corpo, mi occorre silenzio e un sottile suono che parte da lontano e che insistente diviene l'orizzonte tra il possibile e il reale. Forse è questo che mi arma la mano e mi guida su questa scura tastiera, potrebbe essere il movente di tanti inconsulti fraseggi, basterebbe sostituire spazi e lettere con note assonanti. Chissà che musica quel giorno, chissà quali fasti, o forse la solita stecca che m'insegue da sempre. Quel caldo, quei gialli, sono parole, è fumo, tra me e quell'ottone riflesso.