A Mariemarion e a quegli amici che vogliono leggere.
No, un eroe proprio no. Semmai il contrario, un anti eroe. L'eroe è sicuro di se, impavido, fiero e duro, sfida il destino con la sua spada sfidando eserciti. Mai e poi mai si immaginerebbe battuto, sconfitto, dimenticato. Io non ho certezze, se non per la voglia ardita di fare, e di proseguire. Non ho risposte, a nulla, solo domande che da poco, o da sempre, rimbalzano come echi impazziti nella mia mente. No, non mi ci vedo proprio nell'effige ciarliera del "sicuro e refrattario". Mi dispiace, non sono impermeabile, traspiro da ogni poro e mi mescolo e confondo continuamente con ciò che mi circonda. Ho bisogno di continue conferme, perché sono un uomo e questa mia condizione è insita nel pensare, gioire e soffrire. Sono così, e altrimenti non vorrei essere, rivendico il diritto alle mie debolezze, che riviste e rianalizzate sono la mia forza, in quanto foriere di quella sensibilità che è centro e fulcro del mio essere.
Ricordo l'Agosto del 1992, se non erro, erano le sette del mattino, eravamo in pochi e testimoniavamo l'ideale d'una terra libera, la Sicilia, dall'oppressione storica di Cosa Nostra. Quella Mafia, che prima che esplosioni e sangue è sfaldamento inesorabile della dignità umana. Ad un tratto entrarono i baffi d'un omino in vestaglia, basso e un po’ goffo, come negli anni all'uomo succede. Era Gianni Minà. Ricordo che prese il telefono, chiedendone il permesso, e accennò un dialogo tranquillo, ad una persona che immaginai fosse un amico, e atipico, per l'orario e il contesto. Poi si sedette e non si fermò con noi, ma fece in modo che noi ci fermassimo con lui. Sorseggiando un caffè ci parlò come a vecchi amici, non per il tono, ma per la sincerità dimostrata. La mia labile memoria ha trattenuto poco di quelle parole, ma c'è una frase che riposto nel mio bagaglio storico e che fa parte di me: "...ricordate che dietro la parola ottimizzazione si sono consumati i più atroci crimini dell'umanità...". Ho fatto talmente mie quelle sferzanti parole che, trasponendone il profondo concetto, ciò che è limpido, univoco, inalterabile e composto mi induce, oggi, un sibilo che sa di sospetto. Non sono circolare, ne inscalfibile o chiaro. Ho corso per anni 25 chilometri ogni due giorni, non per la mia brillantezza fisica, inesistente, ma perché ogni volta era una scommessa con me stesso, l'ho fatto con una cisti che mi adornava e sfaldava il perone della gamba destra. Faccio le mie scelte, assurde e controcorrente quanto possano essere, non in virtù di una luminescenza che mi sollevi da terra, ma perché da sempre inseguo quell'ombra che mi sfugge e che sono. Lento, pesante e sgradito, ciondolante, come nel passo, ho poco da mostrare. Vorrei solo comunicare, ai pochi attenti alle sfumature e a me, tra grovigli di sensazioni e lassi vuoti di tempo.
No, un eroe proprio no. Semmai il contrario, un anti eroe. L'eroe è sicuro di se, impavido, fiero e duro, sfida il destino con la sua spada sfidando eserciti. Mai e poi mai si immaginerebbe battuto, sconfitto, dimenticato. Io non ho certezze, se non per la voglia ardita di fare, e di proseguire. Non ho risposte, a nulla, solo domande che da poco, o da sempre, rimbalzano come echi impazziti nella mia mente. No, non mi ci vedo proprio nell'effige ciarliera del "sicuro e refrattario". Mi dispiace, non sono impermeabile, traspiro da ogni poro e mi mescolo e confondo continuamente con ciò che mi circonda. Ho bisogno di continue conferme, perché sono un uomo e questa mia condizione è insita nel pensare, gioire e soffrire. Sono così, e altrimenti non vorrei essere, rivendico il diritto alle mie debolezze, che riviste e rianalizzate sono la mia forza, in quanto foriere di quella sensibilità che è centro e fulcro del mio essere.
Ricordo l'Agosto del 1992, se non erro, erano le sette del mattino, eravamo in pochi e testimoniavamo l'ideale d'una terra libera, la Sicilia, dall'oppressione storica di Cosa Nostra. Quella Mafia, che prima che esplosioni e sangue è sfaldamento inesorabile della dignità umana. Ad un tratto entrarono i baffi d'un omino in vestaglia, basso e un po’ goffo, come negli anni all'uomo succede. Era Gianni Minà. Ricordo che prese il telefono, chiedendone il permesso, e accennò un dialogo tranquillo, ad una persona che immaginai fosse un amico, e atipico, per l'orario e il contesto. Poi si sedette e non si fermò con noi, ma fece in modo che noi ci fermassimo con lui. Sorseggiando un caffè ci parlò come a vecchi amici, non per il tono, ma per la sincerità dimostrata. La mia labile memoria ha trattenuto poco di quelle parole, ma c'è una frase che riposto nel mio bagaglio storico e che fa parte di me: "...ricordate che dietro la parola ottimizzazione si sono consumati i più atroci crimini dell'umanità...". Ho fatto talmente mie quelle sferzanti parole che, trasponendone il profondo concetto, ciò che è limpido, univoco, inalterabile e composto mi induce, oggi, un sibilo che sa di sospetto. Non sono circolare, ne inscalfibile o chiaro. Ho corso per anni 25 chilometri ogni due giorni, non per la mia brillantezza fisica, inesistente, ma perché ogni volta era una scommessa con me stesso, l'ho fatto con una cisti che mi adornava e sfaldava il perone della gamba destra. Faccio le mie scelte, assurde e controcorrente quanto possano essere, non in virtù di una luminescenza che mi sollevi da terra, ma perché da sempre inseguo quell'ombra che mi sfugge e che sono. Lento, pesante e sgradito, ciondolante, come nel passo, ho poco da mostrare. Vorrei solo comunicare, ai pochi attenti alle sfumature e a me, tra grovigli di sensazioni e lassi vuoti di tempo.
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