martedì, dicembre 10

C’è una spiaggia a sud di Tunisi, dove la sabbia dorata si stende per chilometri, raramente interrotta dal mare che affonda il colpo lambendo il limite massimo, oltre il quale c’è l’uomo con i suoi argini. Siamo ancora in Sicilia, ve lo garantisco, per averne la prova basta aprire una cartina dell’Italia e far scorrere l’indice giù, molto in basso, fino a sfiorare Palermo, per poi sorvolare Enna e scorrere l’estremo lembo, a Oriente. Pozzallo è un paese senza storia, unico vanto la torre Cabrera, costruita per allontanare lo straniero ed imprigionare i temerari irriducibili. Ad un soffio di vento da Scicli, Modica, Ragusa Ibla e Noto, capitali d’arte d’assoluto interesse, Pozzallo, invece, è scarna, dalla elementare urbanistica a scacchiera e dalle tracce pressoché inesistenti del passato. E’ una terra abituata ad essere supporto ad altre, priva di identità propria, carattere che emerge anche dagli abitanti, i cui discorsi riflettono spesso l’altro e l’altrove. Quel cielo e quel mare sono unici, però, di rado ho intravisto squarci di simile bellezza. E’ questo il vanto e la rivincita del paese, non la cultura consapevole, ma quella dell’essere in quanto parte di uno scenario. Tra le dune amavo stendermi per origliare il vento misto al mare, dove le nuvole disegnavano ombre fugaci tra la sabbia in moto perpetuo. Uno scoglio, bianco, era la meta lontana – così appariva – verso cui tendere, quasi colonna d’Ercole insuperabile ma auspicata. A volte il mare sommergeva tutto, e spariva la sabbia e con essa i confini, non si poteva che osservarne la spuma in quei momenti, bastava adagiarsi, e non occorreva pensare.