Vuole la letteratura che Padova sia la città dei portici, migliaia di metri che si snodano tra vicoli e gallerie in una gruviera di vocii ed echi. Sorseggiando i passi, in un gioco di rimando con il selciato, in quei giorni che pongono fine alla settimana, sovente ho meditato su questa intrigata faccenda. La Palermo ordinata, questo ritengo Padova, poi lo stesso affanno d’uno stile vecchio e la capacità di sfaccettare ogni concetto, accendendo riflettori di luce pennellata. Ma quei portici, quel labirinto urbano, da dove provengono? Se chiedi ad un padovano, abituato ad osservare, ti guarda interponendo tempo tra se e la risposta. In fondo il quesito è semplice, e la città è nobile, si amano le passeggiate e le lunghe conversazioni e nulla meglio d’un portico può consentirlo, al riparo dalla pioggia, senza orpelli ed accessori, con le mani calde, nelle tasche. Per la mia propensione a tagliare gli estremi delle cose, le più probabili e le più assurde, o per il gusto dell’immedesimazione che tra il Pedrocchi e Piazza delle Erbe è inevitabile, ho riflettuto a fondo. Questa sera, tra il fumo pungente delle caldarroste e il sibilo d’un violino sono arrivato alla conclusione. Cara Padova, città veneta, naturale contrappeso alla fredda Verona, troppo linda, troppo lucida, con quelle volte non intendi riparare il tuo humus vitale, i tuoi uomini, dall’acqua e dal cielo. Tu, felice del brulichio vivace che lambisce ogni angolo, in un estremo e generoso impeto, vuoi impedire che i tuoi diletti cittadini e ospiti possano volgere lo sguardo in su, al cielo, fosse anche un solo angolo. Contorni e stordisci con affreschi, palazzi e stucchi perché lo sguardo sia più possibile orizzontale, motivo per cui tutto il bello e sotto traccia, in linea, mai in alto. Il sole avaro non è clemente con Padova, il grigiore diffuso è di nuvole troppo alte per essere dipinte. Tutto ciò che è caldo e dona luce proviene da sotto le mura, quasi lieve mantello, emblema e vessillo.
In quei lunghi giorni in cui sale la nebbia, il sipario appare finalmente aperto. Come in un teatro nel clou del momento, compare quel fumo biancastro ad accentare l’atmosfera. In quei momenti la senti Padova, non devi più vederla, c’è brusio, un volteggiare sordo, delle scarpe che disordinate si muovono. Nel giallore trapelato di luci pensule non vedi facce, ma archi e portici. Passo tra quelle cadenze ritmate, lì, grazie al cielo – è il caso di dirlo – c’è il sereno.
In quei lunghi giorni in cui sale la nebbia, il sipario appare finalmente aperto. Come in un teatro nel clou del momento, compare quel fumo biancastro ad accentare l’atmosfera. In quei momenti la senti Padova, non devi più vederla, c’è brusio, un volteggiare sordo, delle scarpe che disordinate si muovono. Nel giallore trapelato di luci pensule non vedi facce, ma archi e portici. Passo tra quelle cadenze ritmate, lì, grazie al cielo – è il caso di dirlo – c’è il sereno.
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