giovedì, dicembre 12

Fuori dai clamori, dove i riflettori arrancano impotenti e chino il sipario sottace, riappaiono le tinte cangianti di sfumature e avare di contrasti. Lì, dove non bazzica il coro e nessun occhio vitreo ha mai puntato lo sguardo, in un sentiero o un dirupo, c’è ancora qualcuno che ama il vociare, il rotolare pietre, perché è ancora possibile un sotto, il chinarsi, l’osservare e il sentire gli odori. Una pulsione viscerale, impossibile da refrenare, ci fa lasciare l’auto oltre il primo semaforo, si scende, e, riposte le scarpe, si salta via oltre il primo steccato. L’incanto è perdersi, vagare, solo, con i propri pensieri, al di la dei mille stilemi, troppi, da scordare. In un selciato, uno di quelli, nacque un’idea, poi sinonimo ed in fine metafora. E’ l’ombra che da tempo m’accompagna, muschiosa presenza, che mi felpa il passo. Laddove la luce non arriva diretta, tagliata e lenita affinché la pellicola del mio essere non ne venga invasa, emergono i miei intensi respiri onirici. Avvezzo al vagare, oltre verticali spranghe mai paghe, emergono in fila le corrispondenze e le danze. Nell’immane rimando, defluisco tra verbo e gola, non c’è fine, ma solo l’istante, e il farne parte.