giovedì, dicembre 26

Oggi Pietro mi ha chiesto di esporre un motivo, ne bastava uno, ma valido, per giustificare l’uso di un apparecchio fotografico classico piuttosto che uno digitale. Forte del recente acquisto di una compatta HP da un megapixel, sostiene che è praticissimo e veloce inquadrare, scattare e stampare una foto, e la qualità è buona. E’ risaputo che attualmente la qualità delle emulsioni su pellicola è maggiore rispetto a quella ottenibile dal digitale. Ma il punto non è questo, i termini della discussione non possono solo essere la qualità e la praticità. Ognuno di noi isola nelle cose un ambito di azione, per cui il concetto di “migliore” può divenire rarefatto se non circoscritto e motivato.
Per me fotografare è culto dell’immagine, vista in trasparenza, come fosse filigrana, attraverso forme e cromatismi setacciati in un gioco a sottrarre. E’ il latente che emerge, filtrato nell’orda di grafismi e simboli inconsulti. Un’analisi profonda di ciò che ci cinge e coinvolge, la visualizzazione di una realtà, tra le possibili, non può essere misurata con il tempo, sicuramente non nel modo convenzionale, e la praticità diviene solo un modo per semplificare approssimando.
Avvertire la sensazione di un raggio di luce, che attraversa una lente per adagiarsi su di una pellicola, è un’esperienza unica, palpabile solo se esiste una propensione a vivere la scena, con l’apparecchio fotografico che diviene un prolungamento della nostra vista. Ogni cosa carpita deve poi essere coccolata, cullata. La camera oscura è uno dei rari luoghi in cui ho sentito azzerarsi il tempo, in cui il buio ed il silenzio sembravano assistere alla veglia d’un parto. E tra taniche, liquidi, bacinelle, qualcosa nasce ed emerge dal nulla. Si è costretti a pensare, a ritornare indietro al momento dello scatto, è un modo per sconfiggere quel consumismo che vede scemare la nostra vita prima che le cose.
Questo rapporto passionale e sentimentale non lo si riesce a ricostruire con il digitale, tutto viene condotto all’insegna della rapidità e della corrispondenza tra lo scatto e la visualizzazione. Fotografare è un processo di vita, è la nascita di un’idea o di uno sguardo, è un frangente, una culla temporale, in cui qualcosa di appena sbirciato subisce un’evoluzione modulante. Strano a dirsi, ma l’immagine nasce dopo lo scatto, quando l’istinto del momento diviene necessità di collocazione, esperienza di vita e predisposizione all’emersione, una delle tante possibili.
E’ un po’ il motivo per cui a volte lascio la tastiera e riprendo in mano la mia stilografica. Quello che voglio scrivere in fondo è lo stesso, ma il lieve gracchiare del pennino sulle invisibili rugosità della carta e il lento defluire dell’inchiostro dentro la lamina di metallo, predispone diversamente l’animo. C’è un rapporto fisico insomma, è il gusto del bello, l’immedesimarsi con un mezzo che diviene parte di noi stessi, è la consapevolezza d’un mondo di simboli e della necessità di carpirli con una sinuosa sintonizzazione.
Mi sembra un po’ la battaglia che sostiene Giulio circa l’uso corretto della lingua italiana. La velocità del dire e dello scrivere spesso origina una violenza alla lingua. Potrà sembrare bello, alla moda, coniare smodati neologismi, ma in realtà è un atteggiamento di rapidità sbarazzina. Probabilmente con l’andar del tempo certe storture verranno annoverate anche dal Devoto-Oli, come è possibile che in futuro vengano propinati solo apparecchi digitali, ma questo vuol dire poco. Come al solito la convalida consensuale non è indice di ciò che è giusto, bello o migliore, ma solo segno di dove si saranno indirizzate le masse, raramente coscienti.