Trovo avvilente che ancora oggi, dopo la mattanza che ha fagocitato uomini ed istituzioni, si possano leggere certi articoli che rimettono in discussione le acquisizioni più elementari, frutto degli ultimi venti anni di lotta a Cosa Nostra. Non è un giornale in cerca di notorietà o la penna di un giornalista alle primi armi, sprovveduto, o politicizzato. Il quotidiano è Il corriere della Sera, che a firma di uno dei suoi più noti commentatori, Francesco Merlo, pubblica in piena prima pagina un pezzo su Bruno Contrada che ha dell’incredibile. I toni apparentemente stemperati racchiudono un vizio antico, il centellinare, cioè, di nozioni e punti di vista altamente forvianti, che ottengono nella loro somma un effetto devastante. Contrada non è mai stato “la guardia che si fa ladro per fare meglio la guardia” o “il servitore fedele di una istituzione ambigua”, semmai il ladro che si fa guardia per fare meglio il ladro, esso stesso parte integrante di un’istituzione ambigua. Credo ancora in una società migliore, in una Sicilia libera da Cosa Nostra e dalle mafiosità, e in questo – caro Merlo – è necessario vedere tutto bianco o tutto nero. Io assertore delle sfumature, in cui vivo, auspico contrasti vivi in Sicilia, non mezze tinte. Voglio sapere, e plaudire, chi profonde un impegno assoluto dedicando la sua vita per la collettività, e voglio anche sapere, e additare, chi ambiguo si muove sull’inclinazione del momento, trucidando principi e dignità, prima che persone. Spero che ci sia chiarezza, che non ci siano ancora in un paese civile persone improcessabili, che ogni cittadino, ogni siciliano ed ogni italiano, possa distinguere l’Istituzione, e chi la serve credendoci, dai vili e parassiti che dietro una divisa o uno stemma sproloquiano, ingannando, sul senso dello stato.
Mi sembra che ci siamo rituffati dentro vecchie polemiche e cavilli formali, tempo in cui un incredulo Leoluca Orlando e uno sbigottito Michele Santoro vennero accusati l’uno di aver calunniato il Maresciallo Lombardo e l’altro di avergli dato voce. Anche allora, come per Contrada, la questione è la stessa, la guardia – o l’istituzione se vogliamo – che va a braccetto con il mafioso per servizio. Non so se sia lecito o meno, ma nell’isola a tre punte certe ambiguità non si possono tenere, in Sicilia non si parla, bastano piccoli gesti, delle movenze o lo sguardo. La guardia accanto al ladro, quindi, di per se è un messaggio chiaro, che non può che aumentare la diffidenza dei siciliani e rafforzarne la filosofia d’emergenza per la quale bisogna vivere e lasciar vivere.
Non so se Bruno Contrada sia colpevole o innocente, a diffidare di lui per primo fu Giovanni Falcone, vero e fedele servitore dello Stato, lui si privo di toni mediati. Non si spiegava come certi capomafia potessero sfuggire alla cattura, fino ad arrivare alla conclusione che dietro all’inspiegabile c’era la mano dell’uomo cangiante per definizione, Bruno Contrada. Chi era quest’uomo quindi? Che ruolo aveva all’interno delle istituzioni? Per mandato di chi? E’ possibile che due apparati dello Stato perseguendo, teoricamente, lo stesso fine si siano intralciati a vicenda? Le risposte apparentemente facili si complicano nell’asse che unisce un funzionario del Sisde, Cosa Nostra, la magistratura siciliana, la politica e i poteri forti.
Ho incontrato Bruno Contrada una sola volta, per puro caso, risaliva via Dante a Palermo, giusto difronte la casa di Leoluca Orlando. Il suo passo lento accompagnava il capo, chino su di un impermeabile color panna, il suo sguardo sfiorava appena le auto che provenivano dalle sue spalle e incontrava a volte gli autobus che gli venivano incontro dalla corsia riservata. Avrà pensato tra se e se a quante volte gli uomini di legge, poliziotti in divisa e magistrati, avevano percorso a sirene spiegate quelle corsie delimitate dal giallo e da cui è possibile percorrere le vie contorte di Palermo sfidandone il senso. Forse avrà accennato ad un sorriso al pensiero che pochi anni prima, metà anni ottanta, il Giornale di Sicilia aveva scatenato una polemica su quelle sirene che disturbavano la quiete pubblica. Lui no, Contrada non era tipo da sirene e auto che svettano lasciando le impronte sull’asfalto, lui era un’ombra – in questo ha ragione Merlo – e le ombre non devono sfuggire e correre, sono sempre presenti, come lo furono nei più eccellenti eccidi della storia recente italiana.
Mi sembra che ci siamo rituffati dentro vecchie polemiche e cavilli formali, tempo in cui un incredulo Leoluca Orlando e uno sbigottito Michele Santoro vennero accusati l’uno di aver calunniato il Maresciallo Lombardo e l’altro di avergli dato voce. Anche allora, come per Contrada, la questione è la stessa, la guardia – o l’istituzione se vogliamo – che va a braccetto con il mafioso per servizio. Non so se sia lecito o meno, ma nell’isola a tre punte certe ambiguità non si possono tenere, in Sicilia non si parla, bastano piccoli gesti, delle movenze o lo sguardo. La guardia accanto al ladro, quindi, di per se è un messaggio chiaro, che non può che aumentare la diffidenza dei siciliani e rafforzarne la filosofia d’emergenza per la quale bisogna vivere e lasciar vivere.
Non so se Bruno Contrada sia colpevole o innocente, a diffidare di lui per primo fu Giovanni Falcone, vero e fedele servitore dello Stato, lui si privo di toni mediati. Non si spiegava come certi capomafia potessero sfuggire alla cattura, fino ad arrivare alla conclusione che dietro all’inspiegabile c’era la mano dell’uomo cangiante per definizione, Bruno Contrada. Chi era quest’uomo quindi? Che ruolo aveva all’interno delle istituzioni? Per mandato di chi? E’ possibile che due apparati dello Stato perseguendo, teoricamente, lo stesso fine si siano intralciati a vicenda? Le risposte apparentemente facili si complicano nell’asse che unisce un funzionario del Sisde, Cosa Nostra, la magistratura siciliana, la politica e i poteri forti.
Ho incontrato Bruno Contrada una sola volta, per puro caso, risaliva via Dante a Palermo, giusto difronte la casa di Leoluca Orlando. Il suo passo lento accompagnava il capo, chino su di un impermeabile color panna, il suo sguardo sfiorava appena le auto che provenivano dalle sue spalle e incontrava a volte gli autobus che gli venivano incontro dalla corsia riservata. Avrà pensato tra se e se a quante volte gli uomini di legge, poliziotti in divisa e magistrati, avevano percorso a sirene spiegate quelle corsie delimitate dal giallo e da cui è possibile percorrere le vie contorte di Palermo sfidandone il senso. Forse avrà accennato ad un sorriso al pensiero che pochi anni prima, metà anni ottanta, il Giornale di Sicilia aveva scatenato una polemica su quelle sirene che disturbavano la quiete pubblica. Lui no, Contrada non era tipo da sirene e auto che svettano lasciando le impronte sull’asfalto, lui era un’ombra – in questo ha ragione Merlo – e le ombre non devono sfuggire e correre, sono sempre presenti, come lo furono nei più eccellenti eccidi della storia recente italiana.
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