domenica, dicembre 15

Succede che quando si vive in un ambiente se ne fa parte, e non si pensa e non si scorge. Si è parte del bello e quindi non lo si contempla, si è tessere dello stesso mosaico nell’assieme che è lo scenario. Così nel tempo, quando la vita ci spinge altrove, ci si ritrova a pensare a quei luoghi e il dubbio emerge. Chissà se quelle atmosfere, quelle magie, rivivranno amplificandosi, come zampilli di una fontana, o esistono forse solo nella nostra mente e sono frutto, quindi, di un artifizio. Una sorta di nostalgia che rispolvera i grigiori e ripennella la luce. Dato che il trasporto dei sentimenti è la nostra stessa vita, e il reale altro non è che una soggettiva e possibile miscelazione del lapilli che ci attorniano, amo divagare e presentare il mio scenario, vero perché immaginario.

Per trovare a volta bisogna perdersi, e nello smarrimento si osservano nuove forme. Mi sarà accaduto questo alla fine degli anni novanta. In quell’anno avevo vinto la mia atavica riluttanza verso le folle sterminate e, armato di filtri, pellicole, obiettivi e macchine fotografiche, mi aggiravo per il Festino di Palermo, storico tributo a santa Rosalia e alla voglia dei palermitani di guadagnarsi protezione. Era il 15 Luglio, come accade da qualche secolo, e il caldo torrido dell’aria si miscelava indissolubilmente quello dei corpi pressati l’un l’altro, come negli autobus ogni giorno, motivo per cui la folta schiera di gente era ben avvezza ai gorgheggi di sudore. Confuso e disperso, tra carri, maschere, fumi e farine d’ogni fatta, mi ritrovai trasportato, come di solito riesce la corrente, ai Quattro Canti di Città. Se non fosse stato per l’inconfondibile maestosità, avrei giurato di essere altrove. Quel gioco di luci e colori, filtrato dal pallore del fumo, innescava un rimando di cori e ombre, creando uno scenario surreale e alienante. Una crisi da osservazione catalizzante, sprofondata nell’inquieto, a tratti corrispondente per intensità e metodo a quello che provò Adso da Melk nell’osservare il portale della chiesa descritto ne “il nome della rosa”.
Da quel giorno sono tornato più volte in quella piazza, non l’ho più trovata uguale, ma sempre profondamente mistica. Amo chiudere gli occhi, ora, ed immaginarmi lì, al centro, come se fosse possibile placare per un istante il rombo e l’impeto del fiume d’auto incolonnate.
Chiamata a volte Teatro del Sole e ufficialmente come piazza Vigliena, i Quattro Canti di Città, opera barocca, si trovano all’incrocio del prolungamento del Càssaro, oggi Corso Vittorio Emanuele, con via Maqueda.
Siamo di fronte alla sintesi spaziale e “occhio” della città, da cui è possibile scorgere e dominare tutta l’antica Panormus, la città tutto porto, come vuole il significato greco. L’intuizione è notevole. Perché dai quattro canti in poi saranno le strade e le piazze a condizionare l’urbanistica e non viceversa. Nei Quattro Canti tutto è simbolo, dalle fontane rappresentanti gli antichi quattro fiumi, alle statue dei quattro viceré spagnoli per finire con quelle di altrettante sante, protettrici delle quattro arterie fondamentali della città dislocate alle spalle di ognuna di esse.

Si ci può perdere, lo ribadisco, in pochi metri di terra, si possono sentire vibrare sulla pelle le tante vite che all’Incrocio di Palermo si sono sfiorate. Nobili, volgo, delinquenti, uomini di legge, da lì sono passati chiusi nei loro pensieri, intimoriti dall’immortale presenza di un’opera destinata a solcare i tempi.
Poche parole negli anni sono state altrettanto pennellate, quanto quelle dedicate a quei quattro baluardi da Giovanni Battista Maringo:

Non potrai o Palermo, essere racchiusa in una più augusta Palermo,
perché sei opportunamente suddivisa in molte vie,
e piacevolmente tu che sei una sola città,
comprenderai quattro città.
Maggiore di te stessa,
ti sei fatta generatrice di te stessa.