Ogni mattina sono le sette e trenta, apro una porta, giro una chiave,
imbocco un tunnel lungo un paio di riflessioni, o almeno quattro canzoni ben
assestate attorno ad un disco. Non c'è coscienza, non c'è volontà, dietro
certe azioni, solo abitudine al movimento e alla parola, o, piuttosto , al
silenzio. Dalla prima traversa scende la stessa figura, esile, sommessa tra
il capo chino e le mani ondeggianti e appese a due braccia. Quel passo
disattento, consueto arredo d'ambiente, è dapprima divenuto la certezza del
tempo, poi riferimento spaziale e, infine, compiaciuta certezza
tranquillizzante. Vorrei sostare, vorrei chiedere e sentirne la voce, o
incrociarne lo sguardo e indagare nel velluto delle ciglia. La livrea
rigorosamente nera, per scelta o constatazione, i movimenti sciolti, destati
dalle prime luci e due guance pallide e insolubili alla pioggia, qualunque
essa sia. Giusto in quel punto ho un sussulto, ogni mattina, ogni giorno, da
quando per caso, come tutto ciò che ha un senso, è apparsa lei. Accelero, mi
muovo, salgo e svolto, ancora. Dritto, poi, per un tempo indefinito;
serpentoni a ritmare, clacson, semafori, ecco la terza traccia. Mi fermo,
lo devo, c'è una voce ora che legge un giornale; il primo piede è sull'
asfalto, tra due sportelli serrati la radio che gracchia, non spengo, che
continui tra sedili e vetri. Dentro, il solito aspro caffè, una tazzina
calda, nove tavoli a gruppi, sul primo Gazzetta e Vicenza lindi al mattino e
immolati alla sera. Un bicchiere rosso a macchie di vino, una grappa a
correggere, tre facce, poi il silenzio. Lei è vestita di nero, ancora, a
mimare una divisa, con gli occhi spalancati a guardare altrove perennemente;
se la chiami, se le parli, passa l'iride da un lobo all'altro e svanisce nel
nulla. Lei non sorride, mai, non parla, non osserva, vive e si muove, scorre
tra banco, pavimento e richiami. Vive lanciata nei ricordi, confusa tra un
dove ed un perché, si attanaglia, piega l'anima, vomita la memoria, sia
rialza e riprende. Sacerdote discreto, osservo, assaporo di quel nero l'
amaro, volto le spalle per flettere lo sguardo e sentirne i lamenti.
"Grazie", ho detto oggi all'incontro tra piattino e banco d'acciaio,
"grazie" ha proferito lei, con una movenza della bocca lenta a dismisura,
avvicinando a me il capo chino all'indietro e a destra. Degli occhi solo il
solco inferiore aveva un senso e una lieve sottolineatura, bianca; non so se
per recitare un copione previsto o se per lasciar drenare dell'umido e dell'
acqua.
imbocco un tunnel lungo un paio di riflessioni, o almeno quattro canzoni ben
assestate attorno ad un disco. Non c'è coscienza, non c'è volontà, dietro
certe azioni, solo abitudine al movimento e alla parola, o, piuttosto , al
silenzio. Dalla prima traversa scende la stessa figura, esile, sommessa tra
il capo chino e le mani ondeggianti e appese a due braccia. Quel passo
disattento, consueto arredo d'ambiente, è dapprima divenuto la certezza del
tempo, poi riferimento spaziale e, infine, compiaciuta certezza
tranquillizzante. Vorrei sostare, vorrei chiedere e sentirne la voce, o
incrociarne lo sguardo e indagare nel velluto delle ciglia. La livrea
rigorosamente nera, per scelta o constatazione, i movimenti sciolti, destati
dalle prime luci e due guance pallide e insolubili alla pioggia, qualunque
essa sia. Giusto in quel punto ho un sussulto, ogni mattina, ogni giorno, da
quando per caso, come tutto ciò che ha un senso, è apparsa lei. Accelero, mi
muovo, salgo e svolto, ancora. Dritto, poi, per un tempo indefinito;
serpentoni a ritmare, clacson, semafori, ecco la terza traccia. Mi fermo,
lo devo, c'è una voce ora che legge un giornale; il primo piede è sull'
asfalto, tra due sportelli serrati la radio che gracchia, non spengo, che
continui tra sedili e vetri. Dentro, il solito aspro caffè, una tazzina
calda, nove tavoli a gruppi, sul primo Gazzetta e Vicenza lindi al mattino e
immolati alla sera. Un bicchiere rosso a macchie di vino, una grappa a
correggere, tre facce, poi il silenzio. Lei è vestita di nero, ancora, a
mimare una divisa, con gli occhi spalancati a guardare altrove perennemente;
se la chiami, se le parli, passa l'iride da un lobo all'altro e svanisce nel
nulla. Lei non sorride, mai, non parla, non osserva, vive e si muove, scorre
tra banco, pavimento e richiami. Vive lanciata nei ricordi, confusa tra un
dove ed un perché, si attanaglia, piega l'anima, vomita la memoria, sia
rialza e riprende. Sacerdote discreto, osservo, assaporo di quel nero l'
amaro, volto le spalle per flettere lo sguardo e sentirne i lamenti.
"Grazie", ho detto oggi all'incontro tra piattino e banco d'acciaio,
"grazie" ha proferito lei, con una movenza della bocca lenta a dismisura,
avvicinando a me il capo chino all'indietro e a destra. Degli occhi solo il
solco inferiore aveva un senso e una lieve sottolineatura, bianca; non so se
per recitare un copione previsto o se per lasciar drenare dell'umido e dell'
acqua.
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