giovedì, giugno 5

Immerso e disperso nella marea dell’ovvio, corro. Bisogna far presto, ottimizzare, e d’abitudine alzo decine di volte il polso sinistro per scrutare l’ora; non sono cosciente, è un tic, un meccanismo automatico con reazione retroattiva a leva psicologica. Ma sono bravo, me lo dico, e ce la farò, come sempre. Violenterò ogni attimo, sfuggirò sguardi passivi e lenti, e così, isolandomi, otterrò il risultato.
Stamane c’era un caldo torrido, e tutto vale il doppio, anche un solo attimo, in cui il pensiero affonda lontano nei ricordi. Lui si è avvicinato con passo felpato, tenue come chi si gode la scena senza interferire. Accenna un sorriso semplice, non controllato, ingenuo, disperso in un volto bianco che non ha incrociato il sole. I suoi occhi sono scuri, ma non rivedo i miei, sono tondi e aperti in attesa di carpire ogni segnale. Sento il suo sguardo sulla mia spalla sinistra, mi fermo e volto, interrompo il patto di produttività. “Ce la farai?”. Fulminanti quelle parole, quantomeno inaspettate, ho dovuto pensarci. Lui aspettava, leggendo sulle mie labbra, ma senza fretta, condizione che probabilmente sconosceva. “Ci provo”, ho risposto, aprendo un angolo di sincerità. E continuo, “secondo te?”. “Secondo me, no”. “Bene”, ho pensato tra me, e lo sussurro appena al mio nuovo amico. Nessun altra parola, poi, solo segnali di curiosità. Credo che mi abbia visto alieno, me che alieno avevo giudicato lui, per il suo piccolo volto segnato da una natura matrigna dalla nascita. Ritorna il suo sorriso, è uno sprazzo, una mano lo cerca e lo porta via. Non ho chiesto il suo nome, e lui è svanito. Mi manca; nel silenzio ho capito.