martedì, maggio 27

Una radio accesa basta, su qualunque stazione, anche la più strana e lontana possibile. Ho sbirciato giù per le scale, poi sono tornato sui miei passi e ho socchiuso la porta. Lascio tutto fuori, impegno le mani, che si muovono a comando, abituate alla solita gestualità, fisso il refrigerio a diciotto gradi. Sono nel mio ambiente, nessuna intrusione, solo aria e spazio per vagare. Questo mi è consentito ogni giorno, per pochi minuti, e prepotentemente li dilato per gustare lo scoccare di ogni attimo. Le finestre sono ampie quanto tutta la parete rivolta ad Est, così da catturare sin dalle prime ore ogni raggio di sole. Lascia ben sperare quella luce, contiene il presagio di ciò che vive al di la della mia stanza; per me è una traccia e una direzione. Il resto è convenzione ligia al buonsenso, quello più immediato; tinte bianche, banchi, uno di fronte all’altro, cassetti e cianfrusaglierie sparse dal vortice irrequieto della dimenticanza. Poco sopra di me l’orologio perenne. Non ricordo più quando cedette per la prima volta ai segni della stanchezza. Più volte da quel giorno ho steso le braccia per guardarne circospetto le lancette, e ne ho cambiate di batterie. Dopo un po’ lui torna con il suo battere storto d’un tempo tutto suo, che nessuno capisce. Ai primi fastidi è seguita la gioia d’un elemento entrato da solo nel mio mondo, non io, quindi, a inserirlo con l’immaginazione, ma lui con il suo fare assurdo e lo sforbiciare inconsulto delle lancette.
Negli ultimi giorni sembra tornato a nuova vita, batte dei sonori ticchettii e mi aspetta all’ingresso del passaggio temporale. Lo sento complice, e mi va bene. Un giorno ancora sta per trascorrere.