domenica, giugno 8

Ho visto presto la luce, oggi. La sveglia ha suonato più volte, ma va bene così, voglio che i momenti del sonno si raccordino con il giorno. Sono le sette, e prendo la mia bici per scorrere dietro casa, dove c’è la campagna L’Agno è un torrente di ciottoli e pietre scomposte, lo è sempre quando l’inverno lascia posto all’afa dell’estate. Mi muovo lungo uno degli argini, tra il crepitio dei sassi sotto il peso delle ruote e qualche uccello che mattutino trova il modo per dissentire e svolazzare via. Il corso d’acqua ha lasciato posto al suo letto sguarnito, pallido senza ombre e parvenze di vegetazione. Un sentiero vi si muove al centro, e mi chiedo il perché. Da entrambi i lati saltellano viottoli, così da lasciare presagire la presenza di una strada con incroci e traverse minori. Non mi distraggo, tra me e il vuoto c’è lo spazio per un solo passo, ma ci sono avvezzo, e mi piace sussurrarmelo. I ponti sono un salto nel nulla, una presunzione di un’azione incompiuta; capisco, così, quanto amiamo la continuità, quanto è poco proficuo sostare, o esserne costretto. Ad un certo punto devo fermarmi, è impossibile proseguire, non c’è posto neanche alla voglia di scoprire. Resto con il dubbio, e con l’idea di una sorgente che forse non esiste e che oggi poteva essere solo d’aria rovente. Lascio la brezza lieve alle spalle e riprendo l’asfalto, mi immergo in case basse e bianche, dove qualche colpo di tosse attutito dai vetri risuona come l’inizio d’una domenica. Sono le otto, una signora da la fronte al sole e il fianco all’ampia finestra; sussurra tra se e l’ombra interna alla stanza, forse è sola, ma non serve saperlo. Ha una gonna blu, lunga, e un’ampia camicia bianca; sembra non scorgermi nemmeno, e le sfreccio davanti. Sto per svanire, e lei volge lo sguardo. Giro l’angolo, e per sempre, nei suoi occhi, appena carpiti, la pellicola dell’immagine d’una vita in attesa.