sabato, ottobre 30

Chiudi gli occhi, lasciati vincere dal fremito che ascende tenendomi in apnea per imprecisi istanti. Lasciati trasportare dal dall’umido calore della mia mano, senza apporre coniugazione e aggettivo. Sperdi il pensiero, abbandonati alla memoria in cui riecheggiano ancora quei risi tra fruscii d’acque e vocii appannati dagli anni e dalle vetrate opache delle porte. Visi e parole, e movenze che scorro tra il frullar di vesti color vinaccia a fiori, odori rinsecchiti dallo scirocco penetrato tra i bastioni di faggio delle tavole da pranzo.
Le prime lettere - ricordi? - quelle vergate tra lenti sospiri nel sotto scala pregno di umori umidi. Parole dissonanti, nati da sospiri mal trattenuti, e occhi levati oltre il più alto campanile, nel sito dei sogni in divenire. Il mio pianto che affiorava dalle ombre delle notte che sconoscevo, e liti intessute nelle tenzoni di vita, di quella anima che raccoglievi esponendola al sole, proteggendola con inni d’alterigia come monito scagliato contro il cielo.
Ascoltami in questa voce fioca, pronta a svanire come ora l’effimero e poi il resto, tra le quattro colonne che si ripiegheranno rilasciando oltre la polvere quest’ansia di passione. Non parliamo per un istante, sospendiamo lì fermi nell’abisso ogni cosa; scrutiamoci negli occhi corvini che ci accomunano, vibrando d’impeto, melanconia e deflagrante sentimento.