Svicola impassibile; accosta gli occhi a ritmi vaghi, avanza per osservare i passi che non sente da quella volta che origliando si distrasse, sfinendo immagini e residui di pensiero. Uno, due, ancheggi dai madonnari al clown, sino agli archi che vibrano sui calzoni giallo opaco. E qui; un saltello, e lì, nei fiumi di pellicola inizi novecento che scorre a scatti comici. Dietro un baffetto che gongola su di un bastone in preda ad un trepidio d’asfalto; a braccio con la donna a tacchi dai balbettii di parole pregne mesciute a risa; nel dialogo asfittico dell’uomo del panciotto e l’oculare, sorridente, appena impastato di cartine e libri socchiusi. Note; sotto le panchine antiche di ghisa, rispolvera ansie tenui di degradi dall’effige dei sentimenti andati. Giacche di panno fitto, con la coltre di pelle d’elefante a deflettere fendenti, freddi di lame e vendette. Vive e rivive; rimpasta parole colte e rubate in righe di romanzi, sgocciolate dalle mani, e poi raccolte, respirate e svanite. Il mantello grigio di lana cotta; il passo sinistro più alto d’una spanna a spinger la spalla destra inclinandola per spiccioli di gradi. Una porta alta che appare sempre troppo sfocata con un disco bordato rosso al centro. Lame di luce, lance nelle gambe raggrinzite di jeans troppo lunghi, pronti alle stagioni rigide. Fronde di piante rigettate sui capelli incolti. Niente mani, divorate dalle tasche profonde che sprofondano nella anche.
Una sola parola a fuoco, e un leggero riso; sopravvive al rancore del Fato nel digrignare insistente dei passi.
Una sola parola a fuoco, e un leggero riso; sopravvive al rancore del Fato nel digrignare insistente dei passi.
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