Mura striate da effetti geometrici imprecisi, innalzati oltre la visuale d’uomo su scarpe e tacco rialzato. Spazio misterioso sbordante nei pilastri d’un quartiere, dove crescono spontanei negli anni grandi alberi che mitigano giardini inquieti. Urli corti imbastiti in rombi di motoape per gli asfalti lucidi, levigati dalle dimenticanze. Pareti affisse dietro lettere inconsulte vergate di verde e d’ombreggi di piante ridondandi di rivoli di foglie. Spranghe, su cancelli possenti in battute di ferro, stramazzati ai fianchi insaldi aperti agli equivoci effluvi.
Pochi passi e c’è l’Avvocato a sorprendere, in un pronunciato diritto finemente arcaico per compostezza ed estrema formalità. Passi lenti, d’autorità, ritmati da lembi di calzoni riversi più volte sugli orli, impastati da una giacca alterna all’andazzo svicolato da un lato. Tratta, esprime concetti riverberando sorsi d’aria, annoverando esigenze per se e la intrisa comunità; da qui l’autorità costituita. Passando, al novero del supero d’esame, riscuote schiudendo le riserve ai lati di tasche e svanisce in diagonale alla porta legnosa in divieto.
E’ domenica; nel set spontaneo comparsa Pietro, che non chiede sillabando e articola suoni gutturali precisi, incisi in cartine sbiadite disegnate in aria e rinvigorite con cenni tra dita avvizzite. Abbassa la divisa di giacca grigia e polvere bianca di camicia, collimando coppola e abbaglio sulla visiera esposta a levante. Irrigidisce le meningi e rilassa le gote, dispensando sguardi da duro che le labbra con il rugore del cuoio e inclinazione del capo tradiscono, in ammiccanti simpatie da vecchio.
Riverso tra le sbarre lui che dimentico, e che chiamerò Dimentico, si protegge dagli sguardi doppi d’obbiettivi in finte polveri preziosi di cristalli incrinati su carte patinate di macinii e rotocalchi. Spazio arginato, tra Dimentico e i giardini; i vicoli, i vocii e i frementi dei tempi vuoti d’incursore. Più lo cerchi e più svanisce entro alambicchi del tempo, difendendo viste d’urla strenui in fondi bianco-ingialliti di letti piantati alle mattonelle che in sorte ne ebbero il nome. Dissimulando, mentendo, muovendo braccia in rotei comuni d’aquile piumate, lui s’incanta e osserva a un palmo, dove il mondo recita cade prigioniero d’una guerra impari alla condanna memore; lui Dimentico.
Immerso nei lungoscivoli di centinaia di numeri sconnessi, aleggiati su carrelli scrostati di ruggini porpora. Binari su cui incanalare sguardi e perdere facoltà, viaggi lungo cantine e fornaci pullulanti di vite in affitto. Vetrate spaccate, soffermate ad osservare i cocci lungo piastrelle sorridenti di riflessi. Facce sconvolte, su visi ignari, assieme al raddoppio d’occhi, in anni lunghi di disfacimento. Sorrisi e parole tonanti. Mani a lisciare pagine di libri riversi sotto le finestre, ad ingoiare ricordi di archibugi incentrati in lancette e luci fulminanti. Camici bianchi in bottoni tirati all’ingrasso dei ventri in chiome dall’effluvio sinuoso in pelle oliva di tintura.
In fondo il passaggio al Pindemonte è stato il tempo d’un brivido trasognato, che le mie immagini rilasciano alla schiena per ogni ritorno di supponenza.
Pochi passi e c’è l’Avvocato a sorprendere, in un pronunciato diritto finemente arcaico per compostezza ed estrema formalità. Passi lenti, d’autorità, ritmati da lembi di calzoni riversi più volte sugli orli, impastati da una giacca alterna all’andazzo svicolato da un lato. Tratta, esprime concetti riverberando sorsi d’aria, annoverando esigenze per se e la intrisa comunità; da qui l’autorità costituita. Passando, al novero del supero d’esame, riscuote schiudendo le riserve ai lati di tasche e svanisce in diagonale alla porta legnosa in divieto.
E’ domenica; nel set spontaneo comparsa Pietro, che non chiede sillabando e articola suoni gutturali precisi, incisi in cartine sbiadite disegnate in aria e rinvigorite con cenni tra dita avvizzite. Abbassa la divisa di giacca grigia e polvere bianca di camicia, collimando coppola e abbaglio sulla visiera esposta a levante. Irrigidisce le meningi e rilassa le gote, dispensando sguardi da duro che le labbra con il rugore del cuoio e inclinazione del capo tradiscono, in ammiccanti simpatie da vecchio.
Riverso tra le sbarre lui che dimentico, e che chiamerò Dimentico, si protegge dagli sguardi doppi d’obbiettivi in finte polveri preziosi di cristalli incrinati su carte patinate di macinii e rotocalchi. Spazio arginato, tra Dimentico e i giardini; i vicoli, i vocii e i frementi dei tempi vuoti d’incursore. Più lo cerchi e più svanisce entro alambicchi del tempo, difendendo viste d’urla strenui in fondi bianco-ingialliti di letti piantati alle mattonelle che in sorte ne ebbero il nome. Dissimulando, mentendo, muovendo braccia in rotei comuni d’aquile piumate, lui s’incanta e osserva a un palmo, dove il mondo recita cade prigioniero d’una guerra impari alla condanna memore; lui Dimentico.
Immerso nei lungoscivoli di centinaia di numeri sconnessi, aleggiati su carrelli scrostati di ruggini porpora. Binari su cui incanalare sguardi e perdere facoltà, viaggi lungo cantine e fornaci pullulanti di vite in affitto. Vetrate spaccate, soffermate ad osservare i cocci lungo piastrelle sorridenti di riflessi. Facce sconvolte, su visi ignari, assieme al raddoppio d’occhi, in anni lunghi di disfacimento. Sorrisi e parole tonanti. Mani a lisciare pagine di libri riversi sotto le finestre, ad ingoiare ricordi di archibugi incentrati in lancette e luci fulminanti. Camici bianchi in bottoni tirati all’ingrasso dei ventri in chiome dall’effluvio sinuoso in pelle oliva di tintura.
In fondo il passaggio al Pindemonte è stato il tempo d’un brivido trasognato, che le mie immagini rilasciano alla schiena per ogni ritorno di supponenza.
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