martedì, agosto 31

Enzo Baldoni.
L'ora della fine.

Qualche foglio in mano, l'ultimo quotidiano ingiallito dalla pur mite calura di quest'Agosto. I polpastrelli che d'un tratto trasudano, attaccando la pagina dello sgomento. Una granita di limone d'un tratto liquefatta ed aspra. La notizia della fine, che è la fine, le barriere abbattute; significati che si stentano a trovare.
Squallore, voglia di fare, esigenza di capire; risuona l'incipit come il sordo batacchio tra le pareti d’una campana. Attonito, ma non so; stillo lacrime e non anelo tristezza. Avverto l'energia sottile di un sorriso oramai negato.
Quell'inguaribile ottimismo è il bando che vorrei far migrare, e ovunque; il coraggio che vorrei tramandare.
Una fine non fine a se stessa; nella sfida umana dell'uomo contro il più terribile ignoto: Il risvolto della propria faccia oltre ogni ruga.

lunedì, agosto 30

''Franco, ora basta!''
L’avevo lasciato un trentennio fa, Franco, e ora l’inquieta aria appiccicosa lo ha tirato fuori come un coniglio dal cappello d’ogni buon prestigiatore.
I vespri carichi di ricordi sono materia d’ognuno, e quando il soffio del Sud dissecca le ginocchia non si può far altro che arrestare le membra e viaggiare con il pensiero.
Franco, già; ritrovo proprio lui sperso nei meandri del tutto da un numero imprecisato di lustri, immobile nell’uscio del giornalaio.
Prendo il mio giornale come chi a pochi spiccioli liquida un affare al mercato, e ancora: ''basta Franco, torna domani…'', intona l’edicolante, porgendomi il pacchetto e sbirciando altrove. Pochi attimi dopo, fuori dall’edicola, di lui ho smarrito anche l’ombra, svicolata per chissà quale calle.
Perdiamo tutto; immagini arruolate per le fantasie da cullare; voci che ci chiamano e con cui incrociamo scarni dialoghi; forme, corpi, luoghi.
Nella navata centrale, oltre l’abside, dove solo lui e pochi altri sapevano; ovunque ondeggiava il passo dove c’era da disporre un saio da chierichetto o fine al sacerdozio. Per ogni paramento, addobbo e ricorrenza Franco si soffermava con lo sguardo dell’incredulo; poi un passo chino, una mano portata alla nuca, ed ecco un lieve sorriso bianco come il candore.
Già, lui; ''fuori'', ma pronto con tutto il carico dell’esistenza, fermo ad insultare l’aria scarna delle mosche nell’ora del sol leone. Dialoghi, parole sperse inanellate leggere e incomprensibili lenite dai fumi dell’alcool. Fermo, pacato, ciondolante; una mano sempre sulla spalla e un sentiero incerto dietro cui sparire.
Franco niente, semplicemente franco; franco senza meriti, ma terribilmente senza alcuna colpa.
Nella flemma delle immagini perdo il passo; dove sei? Penso e ripenso a ritroso, troppo. Esco e cerco un recupero, vorrei forse chiedere, ma cosa, e dove?
Ciao, alla prossima; stai lì ora, in quei ricordi come quelli che non sappiamo d’avere finché non s’appicia il cerino dell’evento.
Stai lì, perché ti voglio bene; come a i tanti a cui non ho avuto l’ardore di proferirlo.
Stai lì; non sapevo di volertene di bene.
Stai lì, perché io, per te, sto qui nel panno cupo dell’oblio e delle occasioni perse.

Manilo