sabato, luglio 27

Il ponte è in arrivo, i fondi sono già in viaggio, i binari attendono e l'acqua s'attarda. Ma capirete mai, bravo popolo dalle tre punte, che i sogni hanno un prezzo e presto c'è chi passerà all'incasso? Saprete mai voi del bel Paese, che questa terra rimarrà per sempre sfregiata e che mai più, e se mai è stato, il male reietto sarà al confino oltre lo stretto? Quei lembi di terra congiunti sono il simbolo, è vero, di un'Italia che cambia, per sempre e inesorabilmente verso il declino e il torpore. La memoria vacilla, l'oblio è lo scuro, le parole avanzano e i riverberi sono già aghi nella mente.
Immobili.

Varcai battigie,
sfiorai lembi e onde
oltre dune di sabbia,
vago
girovago dell'anima
in versi e rime
che stridono tra le mani.
Sospingo ora,
migratore dell'anima,
tra un mistero e un silenzio
l'elegia di un sentimento,
fardello tra i più
e attimo che declina.
Qui si attende,
tra un vestibolo
e un'idea,
immobili ai sensi.
Sta nell'ordine delle cose che tutto abbia un senso, magari celato e trasparente o profondo e irraggiungibile. Da oggi ho deciso, e sfido un contraddittorio, che questo blog mai riveli concetti coerenti e progettualità. Lo voglio libero come chi non ha mai conosciuto la libertà per non averla mai avuta negata.

venerdì, luglio 19

Triste oggi, a dieci anni dalla strage di uomini e ideali, non trovare traccia di un grande uomo che per gli ideali e la Patria, invece, ha perso la vita. Triste pensarlo, ma Paolo Borsellino è prima stato fagocitato dalla mafia, all'apice della commistione con apparati deviati (?) dello Stato, e dopo trucidato dall'oblio.
Un ricordo: Casa professa, in una Palermo di fuoco, tra tanta gente comune, le sue lacrime per l'amico Giovanni Falcone appena annientato, poi fumo, delle sue infinite sigarette, che ancora oggi rafforzano la coltre di chi ignora.

giovedì, luglio 18

Di un'isola-deserto racconta Eugenio Vitarelli, uno scrittore morto nel 1994. Nel libro La sete, racconta fantasticamente, ma con chiara metafora, di un'isola in cui l'unico fiume è posseduto dal Despota. Gli abitanti, che non hanno più ricordo di stagioni, di acque, erbe, alberi e frutti, condannati all'assoluta, ineluttabile siccità, sono controllati da guerrieri. Ma un giorno si ribellano...
Vincenzo Consolo, Corriere della Sera
"In Sicilia con l'acqua non si beve, si mangia..." Da Sciuscià di Martedì 16 Luglio

martedì, luglio 16

Cogne: per quanto ancora? Il circo mediatico non è mai saturo, ma alla base ci sono uomini, che espongono e che osservano.
In quattordici arrestati in un casolare di campagna d'una Sicilia assetata. Non c'è goccia, non c'è acqua, che possa lenire il continuo parto d'una terra che muore. Che paradossi si sviluppano per quelle dune incolte dell'uomo che dissesta; che assurdo scorgere un Tg annebbiato, tutti, che ciancia tra le prime notizie dell'acqua, e omette, o spinge in fondo, la notizia della cupola mafiosa che imperterrita continua a riunirsi. Come se i due mali non fossero sol uno, come se la parola mafia oggi, come sempre, strozzasse la gola di qualcuno.
"Povera Patria..."

domenica, luglio 14

Un popolo che non parla,
non vuol parlare, parla poco, che riduce all'essenziale ogni scambio fonetico, ma quel che dice, quel poco, lo urla.
Un contrasto che mette in crisi le capacita' percettive e che rimanda dritto all'ultimo rigo: Strani uomini, strana terra.
Se l'approdo è corretto, manca il movente, e l'arcano è irrisolto. L'obbiettivo è la comunicazione, sferzante e potente
come una lama, il mezzo non è la parola, pesante, definita e quindi volgare, ma tutto, pur di evitarla. Allora sale il
volume, la voce cambia tono, e si compone di sapienti pause. Per una sorte di trasposizione delle cose parole e
suono diventano punteggiatura di un discorso piu' ampio, fatto di cenni, mimica e gestualita', dove l'esempio piu' alto
di sintesi e' l'atteggiamento composto da mille sfumature in pieno equilibrio. Riuscire nel contempo a ridurre al minimo
ogni palese umore, e a colpire il bersaglio, rasenta la perfezione, il massimo, materializzato nella totale ricettivita'
dell'interlocutore, il momento in cui, chiuso il cerchio, il "potere" è manifesto, e, principalmente, riconosciuto. In Sicilia
si parla poco, perche' la parola e' un macigno che ti si puo' riversare addosso schiacciandoti. In Sicilia si urla per
confondere chi poco parla. In Sicilia non si parla, ma si urla, e quando poco si parla poco si dice a parole,
ma si sottintende, e quando si urla si simula ma poco si pensa.
"...non bisognerebbe mai incontrare i propri miti, visti da vicino ti
accorgi che hanno i foruncoli, rischi di scoprire che le grandi opere che ti
hanno fatto sognare tanto le hanno pensate stando seduti sul cesso,
aspettando una scarica di diarrea..."

Tornatore in "Una pura Formalità"

Dalle viscere dell'arte.

Un privilegio è Lucio, via di fuga, via che fuga. Da genio cosciente, ma non consenziente, quindi ribelle, mai puntò ad essere il primo di tutti, ma il
primo fra tutti, dove attorno non c'è un secondo, ne un quinto, ne alcun altro posto possibile. Scardinò regole e stilemi, perché non volle
continuare e migliorare, ma stravolgere e spazzare attraverso l'assurdo reso tale estremo e che assurdo rese tutto ciò che prima c'era, e ciò che poi
verrà. Immane peso, vero fardello, lasciato a noi inermi e folli innamorati del suo verbo fendente, dopo lui, dopo ogni ascolto, ore e ancora ore di
decompressione prima di scendere al resto, a qualunque altro umano abbia intrattenuto il tempo con musiche e parole. Distanze, distanze, distanze,
tra lui e il resto, e difficile cogliere la sua vena, maledettamente complicata, ed impossibile, e ne sono certo, poi lasciarla per altro, il tutt'altro, il banale, perché quello pare che resta. Battisti, il bianco, che in un mistico delirio viola traguardi e corsie e libra il volo nell' olimpo dell'Arte dove niente ha limiti, in quanto privo di canoni, dove
tutto è spazio nel tempo d'ebro oblio. A volte avverto stridio fisico e dolore cerebrale, non ascolto più musiche e parole, capto pure onde di pensiero, ed è Lucio, che mi attraversa e folgora le membra, è troppo, troppo, sintonizzarsi sulla sua lunghezza d'onda che lascia stremati, che
transita e sconvolge, ma che torna, vaga e mai passa, nel ridondio d'echi che oscura, oramai, l'altrui voce d'un bieco coro.
E dalla memoria più lontana ancora ricordi...

Vento. Un alito insistente che sinuoso s'infiltra in ogni dove. E' questo il ricordo, residuo vischioso e continuo logorio. Ero giovane e disincantato e
d'un tratto, solo uno, mi sono ritrovato sbalzato e chino, ricurvo nella senilità delle ingenuità. Via Roma, a Palermo, è inesorabilmente uguale a se
stessa da quei secoli che transitano per i costumi d'un popolo prime che dalla storia. Non fosse per quell'incedere stolto d'auto, motocicli e
corriere stanche, che nel rombo testimoniano l'oggi, si potrebbe apporre l'eterna immagine dello stantio passeggiare di bottegai e casalinghe dalle
mani gonfie di borsette ricolme d'ortaggi e d'altro discese dai mercati di Ballarò e della Vucciria, in se scenario, metafora ed emblema di una sicilianità vera.
Avevo appena svoltato, avevo apposto le spalle a quel palazzo delle ferrovie che da sempre è emblema di sogni in partenza e monito d'una realtà contorta che li vuole l'approdo stremato di ogni speranza. Non so perché ero li, ne mai più da li innanzi l'avrei immaginato, stavo semplicemente come mille altre volte, e per milioni d'altri, costeggiando la prima edicola che rasente la strada lambisce ogni passante. Ricordo una voce, ricordo una
radio, era una voce concitata che pressappoco recitava "attentato in autostrada, Falcone e i suoi sono rimasti vittime di un attentato".
Quell'aria, quell'alito tiepido, ma con la capacità di bruciar dentro, mi sospesero in un attimo che ancora dura e si rinnova. Sento ancora le ossa
riseccarsi, la strada svanire, i ronzii alienarsi e i mie passi che vagano. No, non capii subito cosa successe, non capii subito perché, non capii e
basta,rifiutai, questo si, solo. Avete mai sentito una voce enunciare "messo in croce Gesù", no, non so chi mai l'ha sentito. Mi si consenta l'azzardo, quel
giorno per il mio esile essere questo era successo. Falcone, Falcone, Falcone. L'emblema di una speranza, di una possibilità, di un sogno, ultimo
e arduo vessillo prima della disfatta. Ora, infatti, la disfatta; come mai avrei voluto accadesse, a cui mai avrei voluto sopravvivere per
raccontarla. Ricordo, purtroppo, voci di campo: "se l'è cercata", o, in quella chiesa di pietra, l'omelia del cardinale: "mentre a Roma si
parla Sagunto viene espugnata". No! Roma? Sagunto? Ma cosa dici, a "Roma "egregio cardinale c'eri anche tu, e impassibile discutevi e disertavi, ma
nel tuo cuore non c'era "Sagunto", la nostra Palermo, no, e non c'è mai stata.
Un grido, un tentativo d'evasione, le voci, i politici, la gente, le televisioni e i giornali. So solo che oggi porto una traccia che è un solco
nell'anima, e, che se solo un respiro mi rimarrà, lì abiterà Falcone perché in lui e con lui viveva Palermo.
Dopo dieci anni, dopo un secolo, ci si prepara a ricompiere l'eccidio, a dilaniare financo il ricordo che in tanti, come in me, è rimasto indelebile. Mafia e mafiosi affrancati, delitti ora quasi divenuti imprese, lo Stato pronto a trattare. I boia che Falcone inchiodò in cella
pronti all'uscita perché sta per essere rinnegato è il principio più importante che egli stesso introdusse in materia dell'imputazione delle responsabilità: un
mafioso deve essere giudicato in base ai reati diretti e indiretti, dato che ne era
il mandante e dato che non poteva che essere consenziente. Da domani se un boss non ha compiuto
direttamente alcun omicidio, o se alcuna responsabilità diretta verrà accertata, avrà la stessa dignità di ogni altro libero cittadino. Che il
delitto l'abbia ordinato, e che, insieme a tanti altri, ha tenuto inschiavitù un popolo non ha importanza.
Non ci sto, non posso starci, non posso essere complice dell'eccidio
ricompiuto di Giovanni Falcone. Lotterò caro Paese, con l'arma del dialogo, dei sentimenti. Mi opporrò in
ogni modo, e in ogni luogo e mai e poi mai farò terrorismo perché voglio, cara cultura reietta, cara destra insulsa, caro Presidente del consiglio,
guardarvi nelle glaciali facce, quando vorrò scatenarvi la forza della
ragione, dei ricordi e del sangue che già è colato a fiumi. E noi, caro Paese degli uomini coscienti e di coscienza, facciamola finita con i tiepidi
accenti e i toni da talk show.
E' l'ora di Giovanni Falcone, quel momento che nessuno potrà usurpare.
Non ricordo oramai, me ne scuso, e avrò a rimproverarmene per quei secoli intrisi di milioni di istanti che separano da me l'oblio; di tempo ne è trascorso, ma nella mente, e ogni attimo è il continuo tonfo d'un dire che tarda, come l'ombra, come tutto. Ci fù un dì, ma ne interverranno mille a mutarlo, in cui sentii la pelle raggrinzirsi, trasformarsi e svecchiare, fu un giorno lento come mai più, perché altri giorni, uguali, non saranno più possibili. Ricordo, il rintocco delle 17 e pochi spiccioli di minuti a
venire, poi un tonfo, e la deflagrazione fu irreversibile. Era morto, annientato, Giovanni Falcone, e con lui, purtroppo, le sue idee, che idee non furono, ma semplici e sferzati sentimenti. Lì sono nato, e quell'etere rivendico, m'inchiodo al mio rovente davanzale e aspetto e rifletto. Sono giorni, sono anni, ma cosa importa se il tempo è nozionismo dell'uomo e l'uomo, è risaputo, è evanescente come la rena dei mari.
Dal torpore, è riemersa una coscienza, la mia; già questo è un segno...
Forse quando ci si ferma, ci si deve fermare, nasce uno spazio per riflettere. La corsa, la frenesia d'ogni giorno, portano a valutare solo i contrasti forti e a calpestare le tinte tenui. Da oggi parte questo diario informale, osservatorio privileggiato di quell'ego che ai più sfugge, o non interessa.
"Parto" con una segnalazione, "WEBUSA"a cui auguro una continua crescita.