lunedì, maggio 23

Nell’arrancare di ricordi, non esistono le strade fuoco ed i riverberi di sgommate sull’asfalto. Nei giorni dell’indifferenza, si è lontani in città pianeggianti di nebbie e pulsioni. Il tempo sfaldato ha rilasciato il vuoto in quei pugni stretti attorno ai polpastrelli sanguinanti di rabbia. Penso, ma al di là dei davanzali si odono solo parole vaporose adagiarsi sfatte oltre i declivi. Volti accennati agli incroci di corsie opposte, e spalle fredde nelle colonne di immagini opportune e distanti. Quanto ai vicoli e agli scoli delle pietre di Palermo devo; quanto i canti in forma di richiami entro la cinta varia di cultura, hanno forgiato le venature al sentimento straziato che sovente pende. Lontano tutto; in quei discorsi morti, negli interessi goliardici per spirito grasso. Fuori dal sistema quando il sorriso tarda, nella resistenza di atmosfere della mente, e qualcuno ci guarda e ci colloca distanti.
L’anniversario dell’assenza dei miei ricordi, quando niente ne parla e ci incroci sono vocii spenti. I rimandi del nulla, quando il vuoto m’assedia e m’offende. Il sorriso di Giovanni Falcone trattenuto coinvolge e sottintende, nel fumo di una sigaretta incrociata con Paolo Borsellino nei corridoi della procura.


Vanedda r’amuri
n’abbannio ru curò
‘nno vancu ro pisci
anniato ‘nna liscia
r’acqua trasparenti
nisciuta no cannuolu
misa pi vagnari i linzola
lurdi ro sancu
ri cu s’ammazza ‘po pani
o ‘pi l’essiri malandrinu

Sireni ri tribunali
ca trasunu ro Capu
quannu u iurici passa
e i picciuttieddi ‘co sannu
currunu in festa
comu no iuonnu ra Santa
ca re quattru canti
s’ammutta u carru
‘nfacci a Porta Carbuni

Uommini ca talianu ‘ddievi
fimmini ca mmuccianu marita
pieddunu picciridda
ca scappanu ra calata
pi birri a machina ca sgumma,
cantanu e abballanu
picchì u iurici avi i baffi e riri
e sapiddu chi pensa

fossi ‘o vientu
senza vitra ravanti
oppure o sciroccu ca sciuscia
‘nchiusu rintra ‘dda cascia
ca camina e chi curri.

domenica, maggio 22

Smorzando il passo dell’incertezza attorno alla soglia, s’intravede lo scuro dei listelli di legno, a pavimentare la distesa sotto i banchi; giornali aperti e rilasciati, dell’attesa e del richiamo. Tappa prima del pensiero mitigato, la pergamena vergata di cui s’attornia l’uscio. Si disserta di fumo, d’asti, vocii e di un ministro zelante. Il banco dei vini legato alle luci rumoreggia con la coppia di plutei, carichi di mensole e codici riversi. Gli odori della cucina, e gli sguardi altrove; forme brunite di metallo alle pareti e cesti di vimini a terra s’adagiano. Così come la fila di cucù immobili e silenti, nell’attesa del trascorrere e nel vezzo d’osservare. Il cammino verso il bagno è sperso dalla musica e stemperato dall’incrocio di passi mossi nei cori di sguardi. Lesto è il simbiotico annuire di pensieri alla vista del lavabo scavato nella pietra, vermiglio nel rugoso declivio; come ogni cosa in cui la luce giunge e pinge del tocco lieve. Il calpestio e le mura sono verseggiate dei canti di Dante. A trarne, così, nella somma del rivoltare dello sguardo, una Divina Commedia circolare; nel luogo delle celate passioni massime d’ispirazione. Nel simile teatro, il tirar dell’acqua tintinna come nei gorgogli d’arte; e gli imbarazzanti ritiri assorbono memorie sibilline. Insieme a zuppe dorate, fraseggi d’accostamenti con formaggi calici e miele, si va’ dai Nodari per varcare quella porta con l’effige riprodotta dell’Alighieri. Poi uno schizzo di luce, righe d’attornio e canti; oltre che bisogni incombenti. Luogo a latere rivolto a tempio.

martedì, maggio 17

Non ho vite in prospettiva, che siano oltre questa oppure future. Non ho alambicchi in cui confinare atteggiamenti e movenze pittoresche, lasciando poi l’immagine visibile e pubblica al chiarore degli sguardi. Il presente è uno ed inequivocabile, ed il gerundio è l’atteggiamento che perseguo nelle propensioni. Non ho un virtuale in cui mascherarmi, considerato che non ne esiste uno se non nei collocamenti della vita ‘’reale’’. Non basta pensare oltre per dirsi altrove. Sono ombra per condizione, prima che per mascheramento; impronta e sinonimo di una metafora. Non separo niente, nemmeno i pensieri e i fatti più fittizi ed onirici da me stesso. Mi segue la scia di tutto quello che è stato, strisciando per la pesantezza. Sento con il librare dei legami le corrispondenze in ridiscendere. Le aberrazioni dell’osservare sono il tratto del dì quando espongo l’effige fisica al vociare indifferente, quell’imperativo che pretende dialogo. Non scorgo completezza in niente ed in alcun modo, tanto meno dal sostare accanto all’altrui corpo. Non sfoggio supponenze del carpire quando gli occhi catturano le misure dei passi, sganciando i colori fisiognomici dai pregiudizi. Per cui il mio blog è vita, quanto lo è il mio tempo; con le stesse limitazioni e illusioni. Per l’assenza dei sensi amplifico le sensazioni; consapevole dell’assoluta fallibilità del giorno, che - Padre - mi generò. In nessun tempo, ed in alcun modo, ho accettato di me niente; futile e ignaro, mi assolvo ed elevo, riscoprendomi umano. Mi osservo e vario gli angoli a questi occhi, poi ruoto senza scorgere niente che permane e che m’aggrada. Quegli angoli storpi drenano fumosità permeanti; lì dove imprecisa qualcosa accade rovesciando nell’attendere speranze ed inclinazioni.

domenica, maggio 15

Come Simone.

Cielo a bassa lega di schizzi d’ombra nelle pergole. Schiamazzi d’echi di primavera nei passi sugli asfalti sbirciati tra i gorghi delle tende afose. Riflessi nelle pietre a secco dei bastioni stagliati nei meriggi del solleone. Memorie postume, soffuse negli intrighi della mente alla corte dei rimandi di corrispondenze.
Vorrei vivere nel chiarore d’un rigo, vorrei scorrere tra i commenti. Vorrei incorniciare l’equivoco, a cui soffiare allontanando incertezze e necessità di pensieri profondi. Vorrei essere come Simone Cristicchi, variegando spalti ed inclinazioni. Vorrei cogliere fremiti d’inviti per scritture a tema, e leccare un francobollo per il concorso sui pomodori bruni di Salerno o sulle strade inquiete di Milano. Vorrei il click facile sulla bustina della posta e invadere di fraseggi lettori ed editori. Ma son qui sempre più spesso, a cogliere fili invisibili ridiscesi dall’aria tra becchi arancio e code di rondine; nell’arpeggio di parole evanescenti alla vista di simboli che sfiorano e corrugano la pelle. Non sono come te, Simone, e me ne faccio un cruccio; questi rivoli ricadono addosso violando il senno. Come l’ora di mezzanotte che permane, quando il dì rivive perché tutto è scemato; quando le voci esili emergono e il grido non occorre.
Vorrei essere come te, e non sarò mai come Biagio, ma sono come tutto; per non aver negato niente.

domenica, maggio 8

Madre mite, quella delle foto d’una domenica di maggio; madri tenui e d’abbracciare, con occhi pinti dalla follia dell’onda di conquista. Figli ostaggi di sguardi d’oppio, tra movenze lenite dal cingere d’un corpulento muro d’ovatta. Gente in rivoli dietro quinte d’un mondo lontano, soffocate dall’opulenza scomposta di parole cadenzate e stordenti. Uomini in guerra, in gorghi di sangue, con occhi e sensi spalmati di nutella per addolcire le prime scottature tra i raggi del sole. Donne a ripiegare gonnelle oltre la cintola per calare veli su gambe a lutto. Sentimenti surrogati, parole smorzate, sensazioni mitigate; vite sacrificate all’altare della normalità, che devasta e offende.

sabato, maggio 7

Tra i fasti, le palazzine nobili, e la storia; dove Piazza San domenico prende forma e depone corona, stellario e luna sull'Immacolata dal vano sguardo scrosciato a scendere dalla colonna stagliata verso i san pietrini; tra i vicoli incerti di travi cadenti di guerre lontane e sempre attuali; lì i canti si rincorrono l'un l'altro d'un tono disperso tra le mura e colato alla sinuosa calura. Lì, la Vucciria alberga, vita e sua metafora, per cui vita ancor più vera e suadente. Mercanti veri che reinterpretano se stessi, veri teorici dell'abbaglio, del colore, e dell'arte del mescere le tinte, ignari, per cui potenti, ignobili e umani piazzisti, scaltri d'occhio e lesti di mano.
Quattro sono gli angoli d'una Casbah ideale, il cui rettangolo è vero centro atavico e culturale d'una città per il resto uniforme alle altre: Ballarò, il bastione di Nord-est su per le trame di via Maqueda, la Vucciria a Sud-Est, per l'appunto, di cui già sappiamo, il Capo a Nord-Ovest in libera caduta sulla via Volturno pensula tra teatro massimo e il vermiglio tribunale; a Sud-Ovest il Borgo Vecchio, infine, presidio di Piazza Nascè, unico dei quattro a non avere barriere di tempo, accessibile, quindi, di giorno come di notte piena. Quattro teatri d'una vita che brulica, di un rimestio di gente che si sfiora, danza e scivola via.

mercoledì, maggio 4

Scialuppe a babordo e salvagente a prua, generi gonfiabili e rossi anfibi sotto coperta, localizzatene i pressi. Che ognuno si spinga sino al limite dello sbeffeggio, che incuta timore e si mostri avvezzo alla tempesta, come il principe dei nembi, ricordate? Reti, paracadute, fiocchi e ganci, sono ai lati disposti, basta premere giusto il pulsante rosso, quello con un bell’SOS marcato. Pronunciamo la magica parola e tutto sarà svanito, ci riscopriamo nel prato di casa, con il capo sottaciuto sulla spalla e una cannuccia intrisa d’un liquido verde. Stimolante immolarsi all’orlo quando siamo trattenuti da solide cinghie. Scrivere è innanzi tutto un atto contro se stessi e il falso incredulo mondo. Non c’è gioco vero se non lascia un segno, non c’è caccia senza possibili ferite, non ci sono versi e prose senza vuoti irreversibili.