sabato, aprile 30

Incuto timore, alcuno, mai, si avvicinerebbe. Alti i bastioni, le torri e i contraltari, imponenti mura e fondamenta, sulla colina sono io quella centrale nucleare. Invincibile, come la natura e la vita mi hanno forgiato, tutti si perdono ai lati dell’ombra che appena traspare. Mitico come certi castelli che svaniscono ad ogni volgere d’orizzonte, mi sbriciolo ai primi venti di ponente che risucchiano l’acqua a quella rena che è la mai malta inconsistente. Così appaio e mi staglio, m’inerpico e incespico, respingo ai più attacco e movente. Fragili, noi duri, tenui, noi introversi.Tu un giorno mi creasti immortale, e sono qua, Tu che hai fortificato la mia muraglia, blindandomi e proteggendomi da certi lascivi pensieri, Tu che mi osservi rapita tra delusione e sconforto. Io precipito e non dissimulo, io rilascio il fiato per sorbire nuova aria, io sbagliato perché sempre diverso da me stesso. Io non ho trovato parole, e Tu mi hai contestato il silenzio. Così è passato il tempo, e, assopito dentro, ho osservato e sentito. C’era poco da dire, e Tu lo sai, Tu hai puntato l’indice contro il lamento, e io ci ho creduto e ho taciuto. In fondo è qui l’errore, non conosco misure e sono nero quanto bianco, senza scale e gradazioni, per cui santo nell’effige, ed eroe, quanto fango ed impostore.Ci sono cose che non si possono dire, o che non mi hai insegnato a fare, il che equivale. Ci sono cose che si possono solo scrivere, e ci vuole coraggio perch’è facile smarrire i bardotti. Mi muovo e m’adagio, e riscopro il mio volto umano, per nulla mitico e invincibile, ma lucido e in fondo ingenuo. Così sto male, e ti devo molto per questo, perché è alto il dono che ho ricevuto: sensibile all’aria e alle intemperie d’una pioggia che cola e flette ogni fronda. Oggi l’ho detto, e ho un peso in meno dei mille e più che ancora attendo.

mercoledì, aprile 27

Quel che vorrei scrivere è che oggi sfugge. E’ che c’è una finestra e ci siamo distratti, il mondo andava e non ce ne siamo accorti. Eravamo noi tende ai lati, simmetrici, con un filo al fronte e qualcuno l’ha tirato e ci ha socchiusi. Fitte trame opache ora c’impigliano e siamo rimasti nello sguardo, l’uno nell’altro, o nell’altra vorrei dire, ma ingoio il gorgo. Non c’è del vero, ne’ fascino, solo cronache esauste e lapidarie di fronde di vita. Mossi per le scale e le piazze circumnavighiamo palazzi privi di cortile interni e sprazzi di luce. Che qualcuno ci segua, no, non oso crederlo; immaginate, però, uno sguardo tenue che ci si adagi sopra. Un brivido d’attenzione, è quello che aspettiamo, e ci disperdiamo tra mille storie d’auto confuse ai lati d’un posto sempre troppo scarno. Un’aria lieve mossa da mani volte a cingerci, è questo che aspettiamo, noi, e che non osiamo chiedere. Scosse d’occhi che ci osservano, questo sogniamo, nel quotidiano di pensieri rivolti oltre il cielo. In fila per uno, tutti, chinato il capo a inumidire punte di scarpe insabbiate, sorbiamo estatici l’indifferenza dell’altro, sulla sua di punta e sulla spalla innanzi che è il punto d’ogni periodo che siamo. Per questo divago, perché mi stanno storte le righe scarne, e le parole confondono oltre tendaggi di spalle bianche di camicie e colletti. Ho bisogno, informe, di spandere, tanto inerme alcuno coglierà mai un lamento gerbido sfondo d’ogni davanzale. Il fremito si può solo cogliere, e aspettare, e resistere, avvertendo, sentendo; fruitori d’energia ci crediamo ignobili divinità, ma il fiato del flauto è il solo vento d’immortalità che ci è dato cogliere. Il resto è lieve ansia; che aspetto, perché in ciò sono uomo, che è il solo vessillo d’agitare.

lunedì, aprile 25

Nascerò, e ci sarò; vedrete. Non so in quale città mi coglierà la notizia, assorto tra alcuni passi, forse; assopito, oppure al semaforo dell’attraversamento. Parlerò tra me quel giorno, lo sento, e mi avvicinerò a passi lenti dopo aver letto il messaggio. L’inizio oramai è quello, a volte un rigo sospeso, altre un trillo tra le mani e la punta d’antenna di un cellulare. Sarò tenue e paterno, mi dirigerò all’incontro all’insaputa degli annali e dei registri d’anagrafe. Bisogna porre un punto e andare a capo, dialogare in fraseggi corti ed aspettare, bisogna disseminare accenti tonici e gravi tra virgole e spazi.Non c’è niente e non c’è altro, scorre tutto inutile e tutto è l’uno negato all’altro. Tra spazi antistanti sfrecciano figure vanesie, e senza attenzione mi fermo articolando parole instabili. Sognare, è questo che vorrei, ma oggi non m’è dato e devo calarmi in questa stolta via. Non penso, non avverto, sono l’uno perché avverto l’altro. Insana passione ti cerco e non vorrei divagare, sono l’altro che tende all’uno attraverso il vuoto che sottende.

sabato, aprile 16

Il telo avorio degli anni, bianco nel principio remoto, riverso alle balate lucide del fragorio dei passi. Lo zucchetto viola, bordato verso la canizie della barba a racchiudere il sipario d’incertezze, calate in sorrisi pronunciati da immagini distanti. Fogli rigati e liberi, incrociati nell’esposizioni di mani dal far mitigato, a turbare direzioni di persone distratte. Parole ritinte, discese per l’arsure dell’animo rivolto altrove, frasi disilluse e tese nelle raccolte di cenni d’amore. Rime, intarsi di verbi, righi a sfumare e svanire dei tepori dell’aria e dei meriggi d’estate. Piegato sulla seggiola, intento ad incidere la realtà per colui che frenetico distrae la fretta. Intarsiatore di contorni e righe, con penne temprate dai sudori delle dita, disegna attinenze d’aria. Nell’attornio d’arance flesse agli apici, segreta ricordi in accenni di mare prolungando le braccia verso circoli di pargoli ignari. Nella giacca prolungata dalle maniche, nelle borbottate parole confuse, nei fumi alteri del sigaro, risente il vibrato della acque nelle correnti e nei rimandi a tre punte. Nella mente, scivoli di emozioni accentate per sopire il rumorio delle acque; carpendo il rimestare. Gocce d’ansie sparse, abbandonate all’ondeggiare di fraseggi inerpicati nell’intento d’occultare.
Mercato, tuo altare; teatro di vita, inno all’isola di cielo del trovare.

giovedì, aprile 14

Il Caso s’aggira, s’appresta e attende, nel far frenetico del ghepardo. Evocato da parole sincopate nella mente e sillabe imbrigliate. Remore remote svilenti dell’anima, retaggi a sottrarre nei fiumi delle correnti interminabili. Trame; sciabordate in incroci insensati, nel mescere dell’impeto, quando le calure degli scirocchi di primavera rimestano sensazioni e raziocinio.
Alla ridiscesa d’un filo trasparente dei toni dell’acqua e del vento, non puoi che chinarti, svilito caso. Fraseggi e movenze sono futili, dinanzi all’avvento della miriade di particole sfaccettate di sentimenti. Laddove non serve carpire, non occorrono parole ne segni, reti e convenzioni.
Ti espongo al levante nell’ansia d’osservarne gli strali e l’ombra possente alla proiezione dei miei natali. Ci si incontra nel tempo e nell’infinito solo poche volte; i luoghi e navigli che attraversiamo sono ricavate in quelle tele che noi sconosciamo. Lembi unici, siamo fuori dai toni del quotidiano; corriamo e attraversiamo questa vita provenienti dal nostro Lontano.

domenica, aprile 10

Quando, socchiuso l’uscio di listelli di querce, s’innesca il sipario di scuri freddi, avverto gelide le pareti inclinate nell’epilogo d’osservare i tremori. Piego le dita sui palmi richiamando all’ordine la materia umana, aggrottando ciglia e cornici per spandere dileggi in incroci petrolio di sguardi profondi, in pennellare di rimandi d’assenza. Io sento i passi; accodo la mente in un sospiro interinato e immagino ciò che la vista non rifugge. Calata la quiete che non è dei fruscii echeggianti e tenebrosi, non cerco mete, ma avanzo nel fare illineare di chi non cerca perch’è stato trovato. Penso che non ho nulla e che da sempre mi muovo in quest’indefinito luogo remoto, di voci dentro e d’attese. Scendono dall’alto sussurri; interpreto, distante razionale abitante della schiera e osservatore delle movenze. Lungo le bordure di terricci ombrati ci sono già stato; non mi perdo a ripercorrere cieco un calle già abitato dall’avanzare dei tacchi mezzi sfaldi. Ti cerco cielo sfumato dalla pelle di velluto e dall’effige di Caino; nei pensieri ritengo le tinte cangianti e ove non t’ignoro ti coloro di pasticci con le mani. E quante lame che, trafitte le sporgenze in davanzale, piego in puntini di luci stellari. Quante cupe gioie vestite d’effimero, spante in varianze di cielo adorno di nembi; così a variegare d’imperfetto limpido l’Eterno. Solo; in cui risento tutti, negli effluvi di corrispondenze d’acque oblique, ribattere in ogni lembo di pelle. Mi sporgo, poi vario e ricambio; con questi pastelli posso tutto. Poi risento i fragori, e riapro alla luce; qui incomincia la partita di spettri occulti e fandonie da adombrare di menzogne. Quelle che la notte fomenta, e che il giorno infonde.

sabato, aprile 9

Quei volti ondulati attorno a tre auto; tesi d’ansie e di lame di sguardi dall’alto. Sudori scivolati ad attorniare rughe come saltelli di cascate. Movenze di mani negli scroscii delle nocchie, a comandare sibili di sguardi offesi. Acredini di sirene, tinte sulle vetrine infrante di sogni cupi dei piccoli nel vociare mesto della melanconia dei viali. Ferri di fuoco macchiati nell’intimo delle mescole degli umori acidi della pelle, plagiati nelle forme artefatte da storture di tensioni. Gomme stese sull’asfalto nero d’ebano e di rintocchi del cupo, nel volgere della notte. Sillabe sorseggiate attraverso i giallori dei vetri, in sigarette incenerite da ricordi di corpi straziati. Nel dondolare delle strade l’estinguere di pranzi mal consumati in piedi, in guardia di sedie vuote e tavoli sguarniti al senso. Nel soffermarsi, l’impeto del velo di memoria; all’arrivo, l’immagine di fini distinte nel pigiare di pulsanti e il lampeggiare di fuochi; poi assenze.
Con la barba saracena, scolpita nella plastica del viso immobile e nel corpo abbondante a sorreggere un fardello. Esplosione incurante nella mente, di rose avvezze all’impazzata nell’ogni dove del saldo d’interessi. Così nel riveder d’ogni giorno, sino all’ultimo rintocco di chiusura; via con l’auto che sgomma di sguardi ignari a fendere.
Passando ogni dì, a distanza, oltre la banchina, il pietrisco e le mura, s’osservava inetti leggendo strilli di giornale e provando rigetto. Così, passati gli anni, m’incespico matto memore nei rivoli rossi di sangue; in quella mano a sostenere la canna, nell’affanno di chi teme l’inganno.
Lui che chiude la portiera di gran botto, gridando nell’urlo sopito della mente ‘’m’hai ucciso, o gran popolo sovrano’’.

domenica, aprile 3

Non ho paura delle trame di questa notte, scura d’ebano e di rintocchi sordidi di mani. Nel buio fisso lo sguardo e avanzo nei binari gelidi dei ricordi. Affondo nelle melme delle incertezze i legami e le vibrazioni scomposte dei sentimenti. Trattengo il respiro, vivendo le memorie in tele di parole cariche di toni. Di fronte all’ultimo muro, evoco insieme tutti gli alleati fragori di trasparenti inclinazioni. Il dì ha il frastuono dell’ultimo, e ognuno a precedere la vocazione del decisivo, nel variegato incrocio delle sensazioni. Non temo insulti, sputi e spade; qualcuno in quel tempo mi diede natali ignari e fervidi di intemperanze ribelli e sibilline. Quando tutto si fermava, e persino l’aria stemperava l’ardore, c’era un guerriero immobile mago che dirigeva mani come flauti e incanti. Bisognava piegarsi per uscire dall’incanto; guardavo silente, com’ora penso e rivivo.
L’incontro del presunto Destino con la forza immensa del Caso, che libera con piroette imprevedibili strali d’eventi, falcidia gli impudichi rossori di guance. Impongo ancora questa mente agli spettri esposti ad arte; rivestendo ogni pensiero delle tinte indelebili dei legami.