domenica, luglio 31

Bisogna partire spesso, senza destinazione. Attimi in cui riporre i pochi oggetti tenuti tra le mani, nelle profonde tasche dei ricordi.
Viaggiando si abbandona un estremo per l’altro, con cognizione, logica e raziocinio. Implica chiarezza d’idee e d’intento.
Ci si muove, invece, con fare scomposto, con la frenesia di segnali molteplici da osservare. Sconoscendo mete, soste, e ristori, migriamo instabili nelle sabbie dell’incertezza. Abbiamo letto di città, case e luoghi di storia, ma i libri hanno righe definite con caratteri impressi da inchiostro nero. Senza sfumature, e concessione alcuna al mutamento. E’ una condanna certa ciò che ereditiamo; non doni divini di lungimiranza visiva. Non ci sono appelli, tribunali e corti giudicanti. Eclissati i contesti; sfioriti i traditori; assorbiti i suoni; restiamo soli con sensazioni di tristezza. L’elegia del vuoto si compie quando i riferimenti, posti a guida di movimenti puntellati, saltano. Non ci accontentiamo di sapere perché è detto, scritto e letto. Vogliamo muoverci, trovare altre risposte; anche quando la trama s’infittisce. E’ la possibilità, questa sonora apertura di cielo, che cerchiamo in ogni istante. Tutto ciò che traccia le vie, che ci da presunte certezze, ci imbriglia. Ponendoci nell’angolo perpetuo della consuetudine.


A volte
tra venti e tempeste
urlo adirato al Fato
affinché sveli
l’Itaca degli irrequieti;

quiete impone
quell’immortale silenzio
serafico agli infuocati dardi
che squarciano coltre e cielo.

E’ il tempo
divina creatura umana
otre e miele di tutto
dei canti d’indole passata
come dei bagliori del futuro.

Uomo ama e intendi,
con la ragione ricopri
di pelle di capra il dolore;
fuoriuscendo il lamento
sarà musica
e l’Itaca che attendo.

martedì, luglio 26

Fune per intessere l’ordito, scorri fitta seta nelle trame. Alcuni verbi regolano torbidi parole enunciate. Nei fumi e nel senso, l’enumero di pensieri disarticolati rivolti a gabbie insature.

Represse certe immagini si spingono alle spalle ghignando azioni inermi. Passano i giorni nell’attesa di luci, e nel levar del sole. Profuse le parole, tutto non succede ai rintocchi della porta del primo sopore. Nel poggiolo s’intravedono passaggi e ricami di fervori e risa isteriche. Cosparse gote di carezze, nelle distanze sottese ai dipinti, migra la mente oltre ogni frontiera. Dove il rigo ha senso, e le parole che arrancano non tradiscono.

Compagne per dividere la costa e nemici per armare la frontiera; alture per innalzare il capo, e pozzi dove lasciar drenare ogni goccia di sudore. Sensazioni prima che suoni e grafie; notti di sonni in fuga dalla prigione ignara che imbriglia i passi. Suoni e vocii che intonano “tu no; non devi; tu puoi”. Frasi sconnesse nella lingua dell’emergenza, quando appannato il faro tarda e cerchi il suono rivolto; simulacro di raggi negati.

Alti e bassi; ghigni e incurie. Uomo nudo a fronte; specchio lama limacciosa.


Dico che sorvolo
e sono a terra,
il viso nella pozza
d’acqua stantia
che nelle remore traspare.

Mentre odo
richiami
e gozzoviglie in festa
ingoio boccate lerce
madide di limo.

Svilito
m’adagio al fondo
d’imbellettato e fango;
il cielo m’incupisce
e la terra s’apre a ventre.

Briciole di rena,
casa d’altura
che smemore
m’accogli.

lunedì, luglio 18

Le parole hanno vita e sostanza; devono drenare, in quell’istante sensazioni e vaghi concetti assumono forma visibile. Questo il credo che svela l’immobilità semiotica dei miei pensieri. Simboli, grafismi, visioni, sensazioni, unità capaci di imbrigliare la mente, ponendo il corpo in attesa. L’impossibilità di fermare una corrente per trarre a riva un segno. L’abbandonarsi contro l’opporsi; plasmare le prospettive nel lento logorio della ragione che ammette solo codici immediati. Un grande fratello della mente; sonnecchiamo, parliamo, comunichiamo. Cosa?
Tutto è al di là e non ne siamo artefici; spettatori impotenti chiamati ad arginare il declivio di incessanti emergenze.

A zonzo; Palermo l’ho immaginata negli ultimi mesi, la conosco bene e per ogni tratto devo far ricorso solo alla memoria. Ma in quei passi c’ero già; un viaggio terminato, degli incontri, l’atmosfera, i vocii, le strade. Alcuna gradualità; lì tra il frastuono dei tram, clacson, nugoli di gente a sorprendere falde di canicola con l’eleganza del surf sull’onda.

Un tribunale sgombro nell’ala destra e nel retro, con il senso improprio dell’ordine apparente, stona come lo scuro sugli agrumeti. Un giorno lambito dal Capo, con cassette di rosee pesche, o varianti d’arancio, a seconda della stagione, possente ed emblema stesso della tolleranza arcaicamente sicula. Rigoli di Cassette ad ogni fianco, acque di pesci anziani, scoccie di carciofi nelle varianti del verde, o di pomodori tendenti al rosso. Per cui, pescivendoli, fruttivendoli, n’abbanniu di arabi rimandi; e scuri volti sotto i riccioli ciondolanti negli scavi tra le guance, con mazzette di picciuli e pizzini ciondolanti per l’arriffata.

Fermo al bar, dove la frenesia rimane alle porte, si ascoltano le notizie vere della città; l’agonia per la politica incapace; il lavoro, i traffici, e chissacosa. Il vecchio aspetta la corriera dentro la barriera fresca confinata dal vetro; l’acqua scorre eterna da rubinetti preda della condensa che da sola da frescura. Non sono straniero; gorgheggio con movenze minime del corpo per dissimulare l’osservare. Scorgo il barista, bianco di divisa in cappello, lesto all’annacarsi (*); la mano nella manopola del caffè. Di tempo è trascorso, ma le gocce stillano ancora lente; una per una, inesorabili, irremovibili. Qui il tempo è altra cosa; un lampo e penso all’avvocato che al telefono mi dice: ''ci vediamo alle nove, ma ricordi che siamo a Palermo''. Nelle frescure nordiche sarebbero venuti fuori tre caffè; e poi ci si chiede perché quell’acqua scura e semplice è così diversa al Sud.

Mosso tra corsi, vie e vicoli, intesso la tela per stringere Palermo e costringere l’immagine a seguirmi altrove. Nel bus un ritornello pesta insistentemente nella mente; ''se sei tu l'angelo azzurro/ questo azzurro non mi piace/ la bellezza non mi dice/ le parole che vorrei''. Nel fondo dello snodato a doppio vagone, scorgo ragazze armate in viso di iconice nere simmetrie d’arte. Contrasti con colori vividi, pungenti nei rimandi della pelle, e gli odori muschiosi che s’apprestano nella mente in richiami impossibili da lenire. Risa; movenze; effluvi di sguardi parventi e ingenui, calati giù dal Parnaso con briglie d’eternità.

Arrivo; ridiscendo, avanzo; vado. Un carico sfinente prima del tempo d’essere disperso in parole.

(*) L'ex Sindaco di Palermo Leoluca Orlando, attento al folklore ed ai fasti palermitani per Santa Rosalia, suole definire tale termine dialettale siculo come il ''massimo di movimento con il minimo di spostamento''.

martedì, luglio 5

Rifratta nello specchio d’acqua, quel mattino la Torre si ridestò lesta. Altera per i flutti infranti sulle pendici colleriche degli irsuti bastioni. Scevra al divagare, spiò capra e fregio di casata Cabrera, cappello sull’arco del ponte d’approdo. L’ombra risuonò frastagliata sulle tegole d’arancio dei fondachi, rivoltando dai sacchi di iuta i campieri, guardiani di farine e cereali dalle bramosie di briganti color bitume e dai più frequenti incisivi acuminati di bestiole scure e ricurve.
Volse lo sguardo alle terre, e le chiamò Pozzallo, si chè l’origine non fosse un giorno mantata d’oblio. Richiamò lo Scirocco a disseccare i pantani e invogliò nugoli di canne per trattenere le sabbie d’oro ascese dai fondali. Cacciò, infine, un urlo all’orizzonte dell’antica vista dei mori, e sullo scoglio negletto, ora isola dei Porri, apparve un Faro giallo d’arsura e lampara.

Poiché fu sera, sonnecchiò, e rimase immobile più secoli. L’uomo pose la mano e pittò case sbiade e irreregolari, d’interseco privi al senno. Le intarsiò di pietra bianca lungo le banchine e ne tinse le mura color vago; pastello. Nacquero porti d’attesa, sordi alla novella; poi tempii, mercati e spiagge punteggiate da grandi ombrelli.

V’è ancora una torre per chi s’appresta a Pozzallo; mesta per l’assenza d’acque. Vuota di truppe e vigore, s’adagia offesa sui fondali. Canuta e impotente spande sprezzo al pontile, infame Fiera di antiche alleate maree.

Sormonta rena dov’osavano vessilli e bastimenti; e blasfemi vetri si frangono sui torrioni. Una volta teatro d’assalti Saraceni.

domenica, luglio 3

Ho chiuso gli occhi su ventagli antracite dei sampietrini; immagini d’ombre a ricalco di solco in battuta nelle spinte radenti del sole. Li ho riaperti tra le spume del mare; dov’è glabro e lo sguardo si perde. Queste caviglie affondano nei gorghi d’acque inquiete nelle battigie di spiagge asonore. Rene che s’inerpicano confondendo vocii vicini, isolando gli odori di unture limacciose. La riva alle spalle e l’orizzonte impervio; alieno a quel ch’avverto. Salpo nei relitti d’un battello fermo all’ansia nel moto d’ondeggiare. I listelli brumi e scarni, senza drappi in fondo alla carena. Realtà entro campane sopite; mezzi grezzi per non divagare; sogni vivi, accesi e contrastati. Mare e mare e ancora poi mare; in questo solo azzurro carico d’osservare.