sabato, agosto 31

Cerco,
disteso certo,
ricostruisco passi
dai suoni,
sordi li sento.
Andar fuori,
questo devo,
dal cerchio di curve
dipinte nel cielo.

Ne seguo i passi,
sempre loro,
mossi, lenti e senza spazio,
perché il tempo perfido attende.

Il momento, è quello che vive
senza orge passate
e congetture future,
gusta possente.

A volte cigolo
rovente,
s’aliena il pensiero
e tra i suoi occhi divento presente.

venerdì, agosto 30

C’è attesa nelle parole, c’è ansia in ogni istante che cola dalle pareti della mente. Questo è un giorno come gli altri, e da sempre non è mai uguale. La pura condizione volitiva non mi appartiene, mi sfugge l’attimo. Non vivo, perché sono altrove, ma esisto in un’altra dimensione, costantemente sfasata nei ritmi e nelle movenze. Non intesso rapporti nell’attimo, semplicemente non ci sono; ci sarò, forse, ma in quell’alambicco che il ricordo filtra e rigenera.
Una fuga altrove, dove intesso scenari filati in telai mai visti, che mi scavano la pelle e mi scorrono, arteria dopo arteria, sino al più occluso meandro dell’io. A volte, spioventi sbarre, tali rapimenti, smorzano ogni tenue respiro, dove resto spettatore disarmato, avvinto da uno stridio vorace, che non cessa perché non è mai iniziato. Ma quando fuori tutto diviene troppo gelido, e non rimane che il letargo, quelle turgide spranghe diventano d’uopo, offrendo allettanti congedi dal tutto. Non disprezzo le semplici righe, frutto del genio, limpide e scorrevoli come solo l’acqua di fonte può esserlo. Lì, però, in quei luoghi pastello rassicuranti ai più, non vi abito io, è come il giusto indirizzo su una bianca e striata missiva per un destinatario scomparso, o mai esistito. Quei tratti di chiara vita, che a volte leggo, che spesso invidio e per cui sovente sospiro, non potrei mai trasporle in quelle mute tempeste d’acque sopite che sono le mie righe. Scrivere è un viaggio, come spesso il sogno, ma, se così è, sono il più statico Ulisse che la storia abbia mai perpetrato. Abito nei ritagli, nelle pieghe sommesse, dietro le curve d’ogni cosa e accanto l’ombra dell’ultimo platano. In combutta costante, cerco il sito che sfugge, quel qualcosa, quell’istante in cui rivivo ancora. Basta un libro, con un sincero romanzo, un’immagine stranamente illuminata, un sapore greve ma forte e deciso o solo un pensiero che varca la soglia, ed ecco che lì, attraverso, ricompaio stanco nei passi a scrivere di me o di ciò che mi cinge. Non c’è lacrima, non c’è riso, soltanto spioventi parole da ingoiare in un sol sorso e poi aspettare, e poi capire. O forse sentire, solo quello.

lunedì, agosto 26

Con un gesso al piede dove vuoi andare? Sei tu, sempre e solo. Non hai spazio, fughe e vie. Chiuso. Gli steccati della mente, li cinge per sempre, che vuol dire da ora in poi, ed esprime tempo, e il tempo, si sa, è puro spazio.
Provo a spiegare, così muto gli esercizi di stile in utile latente, ove colui che sporadico s’imbarca nell’orde promesse avrà un filo chiaro tra il resto indolente.
Il gesso è bianco, ma non è sciente e lo è solo per uso corrente, potrebbe, con brevi pasteggi, essere d’ogni colore. Una mistura di ciano, due o tre tocchi in Magenta, poi togli e mesci gialli in quantità e snodi impasti d’iridato valore. Basterebbe poco e sarebbero bandiere, toni, colori, sfarzi inattesi. Mode distratte gioverebbero ai viali; oggi si, d’un blu profondo, poi cambia l’umore, o ricorre il dì, e a stelle e strisce d’un tratto apparì. Mah, è strano lasciarsi prendere la mano, ma sognare non costa niente e per tal fatta m’è d’uopo. Ma perché il mio gesso è bianco, che forse il mero fantino, l’infermiere dal fare ansimante, faceva scorrere meglio, glabre, le sue mani? Che la sua forza, la voglia o l’udito ne avrebbero alterato il fiero fervore?
Riconosco a Dio, qual’ora un giorno rivendichi il tratto, d’essere stato cinico, sapiente e fin’ora incompreso, quando disse – a se stesso credo – con impeto e classe: Che il tempo scorra, e l’uomo incessante lo segua! Voglio dire che costretto alla stasi, certe cose picchiettano la mente. Ci pensate agli asfalti condannati all’eterno a quel destro colore canna di fucile? Forse un giorno tutte le auto si riunirono a decretarne l’inviolabile effige? Mah, meglio lasciar perdere. Non c’è tempo per simili suddetti epitaffi, e se tra asfalto e gessi c’è la fine che incombe, beh dietro l’angolo c’è il sole, che poi ne accende i colori.
L’utile si diceva. Con un gesso, come questo al mio piede, si può solo aspettare e lenire, sopire ogni impeto ansimante. Puoi dimenticare, e libero ti fingi, poi ignaro attraversi, ma al varco, chino ti devi prostrare.
Un gesso al piede, credetemi, in fondo non vuol dir niente. Come sempre è il profondo che si vuole celare. Ma se ne abbiamo voglia, e qui urgerebbe indagare, e proprio altrove che dobbiamo guardare.

venerdì, agosto 23

Poche, indistinte volte, forse nessuna, in cui un solo denso tratto, di barlume, mi riport
a, come oggi, ma da ieri, all’incedere farraginoso di una pellicola. Il tempo, quello si, deve essere scandito e la luce, che alle spalle trapela, crea e mesce all’unisono d’un drappello di fiamme. Per ore scorrono davanti al viso icone, incomprese per non essere mai nate e mutate. Mi siedo, solo con me stesso, e la trama scorre, ne avverto sussulti, vaghi tremori, sobbalzi inattesi e fiere visioni. Tutto condotto dalla mente, alla quale i muscoli hanno ceduto il passo, dove ogni cosa è specchio, alambicco e tortura. Oggi è un vivere interiore, per non morire la, fuori, dove tutto è un soffio e s’incatenano i sensi.
Come un dolce biscotto lambito ai fianchi, annaspa l’imago. Il giallo tenue, d’un calore inatteso, inchioda gli occhi, aliena l’assieme, e coglie blindato tenebre calanti, preludi di bieche fiammelle.
Un corpo vagante, stremato dal nulla, ora certezza dal soffio suadente, s’appresta alla fine. E’ un solo risvolto, cencio tra tanti, ondulata parentesi, che non osa chinarsi.
Glabro un suono mi giunge svanito, grave e disperso sobbalzo a ritroso, riverso tra pavimento e parete. Si, ancora una volta.

martedì, agosto 13

Nei vicoli di quest'ultima notte, dove lento lo sguardo vagava alla ricerca d'un cielo precluso, più volte i non radi striddii hanno destato la mano, propensa alla penna. Scrivere, con l'incipit incombente, è un vizio da cui di rado si ci affranca; per me, invece, è l'estremo intento di avvertire lievi segnali, che sovente diniegano, e poco dispensano.
Come vaga il pensiero, come vibra la mano e come spesso gli occhi s'incrociano adagiando blande le cose. Ci sono scosse, moti dell'animo, che nel tempo a volte incline ho imparato a far vagare.
E se trasporre su carta rapisce qualcuno, per me la sola zavorra è il dover palesare.
Vivo da sempre per assenza, là, ovunque mi sospinge il pensiero.

lunedì, agosto 12

Ironia, ultimo vessillo o sintomo d'una vena ironica, che trasuda una sottile intelligenza. Non é - sistematicamente - una scelta o un fatto culturale; più volte te la ritrovi tra i sensi, pronta a fendere. I ricettori a volte s'infiammano e stimolano in uscita secrezioni di pensiero sferzante. Ma la l'ironia é un gioco, di sovente involontario, a sottrarre: più riesci a colpire, sfaccettare e segnare l'ignara vittima e più vivi e ti rigeneri. Ho detto hai più, ma pochi lo sanno, tutto quello che la rabbia, l'orgoglio o il puro diletto m'imponeva.
Da un po ricompongo i tasselli d'un infinito mosaico, effige d'una realtà che non esiste se non nel fugace pensiero. L'ironia non è altro che la dismessa subcoscienza che tra il fugace e il fallace s'annida lavita.
Il sentimento é l'altro, e vive di suo.

domenica, agosto 11

Tre finestre scorrono lente sul pendio della dorsale, l'una d'un davanzale lieve e scosceso, poggia lo sguardo appena assente su quelle torbide tegole d'un dismesso edificio.
Il secondo scorcio, centrale ai due, é il continuo mediare delle cose. Certi lapilli, che le tenui tinte sgretolano, si muovono tra due campi divelti. L'occhio vi risiede, e da poco capii perché, ma la memoria, vanto di beffe, complice sottace.
A sinistra dei due, raggomitolato tra pochi sguardi, c'é la sintesi del bello a graffiti. Non i pastelli e i glissati d'ombra svavillano, ne i quadri, mesti d'inganno, rivelano clicché. Un antenna, irta, spinosa e stridente é l'urlo dell'agognata imperfezione umana. Ecco, c'é l'uomo; ma questo é niente perché sovente si spande; sono i nugoli e i bit che anelano ancora vecchie danze del ventre.
Per ore ho scorto, non che voglia n'avea, e bige quelle grame storture sono state il conneso dismesso. Tre grigi acqarelli, vetrini filtranti, mi hanno adagiato l'angolo più vero, il sentimento che stilla pur pallido e celato. Ah il futuro, se non resto d'avanzo.

giovedì, agosto 8

Limite all'infinito
di una funzione dismessa nei fasti,
svirgolo ai più
ilare tra maiuscole e La.
Nei din il dì, nei don sfilati calli scuri.

domenica, agosto 4

...a rivederci, a ritrovarci; quando il tempo dismette l'effige e lo spazio è un epilogo oblungo...