giovedì, maggio 29

Qualcosa in cui credere, per cui lottare. Una persona, un’idea, un progetto da portare avanti. Tutto è sempre contro, per reprimere, scardinare, impedire. Non vedo aspirazioni, sono ridotto al ruolo di spettatore glaciale; tanto non si può far nulla, e nulla c’è da fare. In riga, uno allineato all’altro, bisogna ottimizzare, si deve correre; via i fastidi, le perdite di tempo così poco remunerative. I giorni trascorrono uguali, la notte, quella che inizia la sera, ma è solo pomeriggio, è un mero passaggio di ponte in ponte nel trascorrere di vite grigie. Bramo un grido, un segno di dolore, che però vuol dire vita, cerco ribellione, ma scorgo sguardi assuefatti lungo corsie di strade insensate. Siamo fermi ed inesorabili, confusi - ma non attoniti, perché inconsapevoli - allo stop di ogni incrocio, impassibili tra schermo e abbagli, attenti, questo sì, ad ogni voluttà. Nello scorrere programmato delle azioni non c’è spazio per parole incantate, oltre la realtà visibile e contro l’inesorabile inconsistenza delle maschere. I sentimenti forti, le emozioni, sono episodi estrani di giorni da bambino, o da vecchi finiti tra una lacrima e un ricordo svanito. Quante amicizie confinate in orari e giorni predefiniti, nel venerdì sera dell’ultimo pub; quante ritrosie e momenti dispersi per sempre. Cerco un sentiero, ma sono respinto; incredulo avanzo con gli occhi chiusi, immagino per vivere e per credere. Ancora.

mercoledì, maggio 28

L’incrociarsi distratti. A margine del giorno, visi, paralleli e opposti, avanzano distratti, l’uno incosciente dell’altro. Distanti, su realtà uniche, pennellate da anni; rifugiati nella nicchia temporale a protezione dei propri timori sordi, perché celati dentro. Persone silenziose, tenui, sul filo d’un pensiero e le movenze di mani lontane in preda a frenetici automatismi. Stanchi dell’ingombro delle cose, alienati, distanti da tutto, insensibili a parole e lacrime, che scivolano via. Nella fossa delle incomprensioni vaghiamo, cinici nell’intento di non sfiorarci, per non scoprire tracce, per poter flettere le palpebre e scorrere nell’oblio

martedì, maggio 27

Una radio accesa basta, su qualunque stazione, anche la più strana e lontana possibile. Ho sbirciato giù per le scale, poi sono tornato sui miei passi e ho socchiuso la porta. Lascio tutto fuori, impegno le mani, che si muovono a comando, abituate alla solita gestualità, fisso il refrigerio a diciotto gradi. Sono nel mio ambiente, nessuna intrusione, solo aria e spazio per vagare. Questo mi è consentito ogni giorno, per pochi minuti, e prepotentemente li dilato per gustare lo scoccare di ogni attimo. Le finestre sono ampie quanto tutta la parete rivolta ad Est, così da catturare sin dalle prime ore ogni raggio di sole. Lascia ben sperare quella luce, contiene il presagio di ciò che vive al di la della mia stanza; per me è una traccia e una direzione. Il resto è convenzione ligia al buonsenso, quello più immediato; tinte bianche, banchi, uno di fronte all’altro, cassetti e cianfrusaglierie sparse dal vortice irrequieto della dimenticanza. Poco sopra di me l’orologio perenne. Non ricordo più quando cedette per la prima volta ai segni della stanchezza. Più volte da quel giorno ho steso le braccia per guardarne circospetto le lancette, e ne ho cambiate di batterie. Dopo un po’ lui torna con il suo battere storto d’un tempo tutto suo, che nessuno capisce. Ai primi fastidi è seguita la gioia d’un elemento entrato da solo nel mio mondo, non io, quindi, a inserirlo con l’immaginazione, ma lui con il suo fare assurdo e lo sforbiciare inconsulto delle lancette.
Negli ultimi giorni sembra tornato a nuova vita, batte dei sonori ticchettii e mi aspetta all’ingresso del passaggio temporale. Lo sento complice, e mi va bene. Un giorno ancora sta per trascorrere.

domenica, maggio 25


Alla ricerca di qualcosa, rincorrendo me, i miei pensieri, i miei sogni sempre più insistenti, portavo una macchina fotografica e poche lenti. Tutto quello che si cerca, ogni stato d’animo, ogni emozione è già nelle cose. Lo scenario, spesso casuale composizione degli elementi, esprimono l’inclinazione di ogni persona. Ho sorpreso barche specchiarsi vanitose nell’acqua, coperture d’automobili disposte per adornare un molo, pali della luce inclini e circospetti, marciapiedi che s’inseguono e litigano. Palermo mette in difficoltà, è bella, pervade, e scorre nel sangue. E’ difficile “sentire” i vocii nel fiume in piena dei segnali e dei rimandi.
Mi sono svegliato nel pieno della notte, c’è qualcosa che mi rende irrequieto, non riesco più a stare a letto; mi alzo, prendo la mia borsa e svicolo con la mia Fiesta. Sono le quattro del mattino d’una città calda, che assopisce e si apre tra i vicoli; alcuni svirgolano verso il mare e altre si inoltrano nelle campagne. Attraverso l’Addaura, frastagliata tra scogli e il ronzio del mare e arrivo a Mondello. Non mi fermo, dico no, quella sabbia, quell’essenza di alghe nell’aria è troppo coinvolgente di per se per riuscire trovare qualcos’altro. Avanzo per Capo Gallo, mi fermo, posteggio nel bordo del viottolo, scricchiolante d’erbe secche, ridiscendo infine verso il porticciolo. Sfodero finalmente la mia Contax, prolungamento della mia vista, inquadro e osservo. A tratti mi sento estraneo, perché ad essere spiato sono io; sento pesantemente su di me l’impronta di ogni elemento, che non vuol essere carpito e violato. Ne sarà passato di tempo, io lì, attonito, su di uno scoglio, alla ricerca di convincere. Mi accorgo di essere diventato parte del tutto, riesco a sentirne la lieve brezza e capisco che è la voce di ogni cosa. Guardo nel mirino; i blocchi d’argine, neri e scomposti, rivolti più a riva che al mare, tra sabbia e scogli, in un luccichio di tinte a fasce di barche sull’acqua, appena turbata da una corrente forestiera. Mi muovo in cerchio, il sole era a mezz’aria a Ponente, apro il diaframma e abbasso i tempi, sempre più, isolo un lampione, di quelli della luce, almeno è quello che in quell’istante credo. Incerto, nervoso, non era solo, era tra qualcosa; retrocedo di qualche passo e diminuisco la focale. Li vedo, il primo insieme agli altri, sono quattro; stagliati, attenti, con un loro senso imperscrutabile. Beli, unici, in fila, equidistanti, ora scomposti. Immobile, abbasso l’apparecchio e alzo il capo; non altro, quella è pura propensione. Muovo i gomiti, inquadro, ricevo l’assenso, e scatto.
Da quel mattino, sono lì ad osservarli, loro non si sprecano in inchini, ruotano, s’adagiano l’un l’altro e mi aspettano.

Questa mattina è andata diversamente. Ai piedi un paio di scarpette blu, e via. Sono lentamente scomparso nel sentiero dietro casa. Chili di troppo, una gamba con un pezzo d’osso in meno – ma tanto è un osso accessorio, un medico lo disse – ed un piede, il destro, troppo rigido. Questo il mio seguito. Ieri sera, prima di spegnere la luce, ho pensato ai miei chilometri di corsa d’una volta, sono trascorsi solo pochi anni; ho rammentato due ore che scorrevano tra la Favorita e Mondello, e viceversa. La corsa genera un pensiero leggero; mi estraneo, eppure rimango parte integrante di questo mondo, le sue leggi, la sua gravità, che ad ogni passo cerco di vincere lanciandomi al cielo.
Vada come vada oggi ho corso, prima ho attraversato vicoli e sentieri, poi vallate e colline, ho attraversato di capo in fondo questa penisola. Questo è quello che il mio pensiero in corsa ha visto e voluto, e non si è fermato che per riempire d’aria i polmoni e sentire scorrere qualche goccia di sudore dalla fronte al collo. Non ho resistito alla tentazione, questa volta, fermatomi per prendere respiro, sono sceso in un campo appena al di sotto dell’asfalto. Erano anni che volevo farlo, mi sono avvicinato a quelle enorme rotelle di fieno e ho iniziato a spingerne una. Lei sembrava non prestare attenzione, dall’alto dei sue due metri, mi ha sbirciato distratta, è ha fatto finta di non scorgermi neanche. A tradirla l’aspetto appena desto dai torpori del sonno; in fondo erano appena le sette e venti. Puntello i piedi, insisto, e lei si la scia dondolare, ma è palese che lo vuole, che ora sta al gioco. Poi ci prende gusto, si inclina verso di me, vuole intimorirmi, ma accenna un sorriso, tramite quel raggio di mattino, e torna indietro in un quarto di giro. Ne ho sentito il profumo e vi ho immerso la mano, che, ritrovata umida, passo sulla fronte grondante di sudore. Intuisce, lei, il mio abbiglio decisamente poco trendy e mi cerca lo sguardo. Occhi neri su attimi infiniti e severi; scorge la vita, poi lascia scorrere la sua mole sul mio fianco, e mi spinge lievemente.
Va mi ha detto; va mi sono detto, quando tra il battere di polmoni e fiato o riaperto gli occhi e ho intravisto un punto da raggiungere. Sempre più piccolo, e sempre più lontano.

venerdì, maggio 23


Scusa,
e l’asfalto tuona,
tutto s’azzera
il folgore acceca
e spazza via.

Scusa,
l’ultima parola,
poi un volo senza fine
d’una scheggia a morte.

Cristo umano Giovanni,
sospeso a morte.
Lo sguardo disperso
e un blocco motore nel ventre.

Attorno, terra, solco e fuoco;
fumo e polvere dell’attacco sferzato.
Rotea il capo, il pensiero si esaurisce
per sempre celato, e d’ora in poi donato.

Per ogni vicolo, a Capaci,
è indelebile il puzzo del tritolo,
e pervaderà in eterno l’eco del boato,
testimone il guardrail rosso maculato.

giovedì, maggio 22

Quindici passi, uno dietro l’altro. Questo il numero propizio. Ma quant’è lungo un passo, e per quindici che tempo ci vuole? Da quegli ultimi residui d’infanzia aveva perso il contatto con il suolo. Eppure di riquadri e caselli ne aveva segnato, e parecchi. Chino, con il gesso tra le dita, sull’asfalto nero e rugoso, reso appiccicoso dai raggi del sole nel pieno del giorno. Pensando e divagando, gli soggiunse un tempo lontano, che aveva perso; solo un ricordo, un lapillo che non brucia, svanito. Si sofferma, entra in contenzioso con il passato. No, non è questo il momento di duellare, si ferma al primo passo pronunciato, ripone l’arma, di cui conosce il significato. Si congeda con il cenno d’una mano; la folla attonita protesta invano.

mercoledì, maggio 21

Una nuvola avanza circospetta, chiede sostegno al vento e si muove in cerchio. La ciambella d’ombra, figlie dei nembi, scopre uno spot di luce. Infastidito l’osservatore spia la scena, tifa l’impossibile, e lo sa; innesca una competizione surreale, quindi esistente all’assopimento della calura. Si alza, si agita, corre e insegue; s’accascia infine, stremato dal futile obiettivo. Il tappeto, della sabbia che calpesta, è ancora giallo, brilla a tratti secondo l’accidia dell’atmosfera che declina e si disimpegna. A monte una sola schiera di persone, e sgomenta scorge solo la bianca spuma delle solite onde ricurve. A valle l’indolente sguardo, in combutta con il tempo e l’atmosfera; dove si inchioda un punto, con l’indice bagnato da saliva e sudore.
Le mani sono riverse sul viso, e il tempo è trascorso. Nella pausa, quella di ogni giorno, si rivede la stessa figura. E’ il momento della sonnolenza, ed è votata al vagare, nessuno saprà mai quali confini qualcun altro ha osato lambire. Le guance, vermiglie, sono puntellate da una barba, bianca all’estremo del mento. Sul tavolo, sempre gli stesi gomiti, ugualmente distanti, e una macchia qua e la, a segnarne i tremori. Un quadro, l’adiacente finestra, fuga mai scorta per un pensiero sempre al di la di tutto.

lunedì, maggio 19


Un uomo si muove lento, è appena apparso sul palco, e cerca il momento, quell’unico della sua vita, per cui darebbe tutto. Tutto è un concetto vago, che lo ha sempre sfiorato, ma non è mai riuscito a definirlo. Ha preparato quegli istanti da molto tempo, con precisione maniacale, nulla vuole concedere al caso. Arriva presto quella mattina, giusto il tempo di scorgere l’alba, e pensare a quel sogno, l’ultimo da bambino. E’ di buon umore, apre spesso la borsa e controlla, come scorresse un elenco, ogni oggetto. Scaldato l’ambiente, osserva la gente, tutti insieme, colpiti dalle luci, sono rivolti ala musica. Lui è deciso, sicuro, sa, per averlo pensato, che quello è il suo momento, e che ogni mossa è frutto del suo immaginario. Non prova emozioni, ha fin troppo calcolato, deve solo compiere quell’ultimo atto, efferato. E’ già su, quando si ferma, e ha già scorto alle spalle. E’ lui, ma è lo specchio di tutti, e tutti sono intenti, ma vedono solo loro stessi. Quella voce, o il suo canto, ha già deposto la chitarra, si vede ombra e si scopre riflesso immaginato dall’uomo. Caccia un urlo, poi altri in sequenza, risponde il pubblico eccitato dall’afa, alzando le braccia e urlando a rimando. Si desta dal sogno, l’uomo, e inizia il concerto a due, cosa da quel momento inevitabile.

domenica, maggio 18

Questa mattina mi sono fermato a Mantova. Una schiera di ombrelloni bianchi si sorreggeva a vicenda; sotto, tavolini sparsi illuminati dalla luce filtrata, quindi tenue e propizia. Il posto ideale, mi dico, dove aprire un giornale, o un libro, e abbandonarsi alla lettura. Qualcuno ha preso tra le mani un disco, di quelli ancora in vinile nero, e vi ha adagiato un braccetto grigio con la punta in diamante. In ogni angolo, il crepitio delle scarpe con la suola in cuoio sul pietrisco medievale è sommesso e diffuso. Tintinnii di tazzine, il reflusso dei bar, alcuni voci; sembra questa la musica diffusa. Altro non si ode. Un vecchio, con in mano un libro, ingiallito, sfoglia le pagine e volge lo sguardo al campanile. E’ in cerca di una storia, forse la sua, ed è lì per capire se mai qualcuno l’ha raccontata; poi flette il capo e chiude lo sguardo. Congiunge la mano sinistra alla destra, come in segno di preghiera, ma al centro ha solo pagine dai bordi gonfi e sfilacciati. Mi avvicino, prendo anch’io qualcosa in mano, credo un breviario, ma riesco solo a carezzarne le pagine e ad osservare la scena. Sorpreso, forse infastidito dall’ingombrante presenza, si muove tra sedie e persone, volge ancora per un attimo lo sguardo, si sofferma su di un tavolo ricolmo di cappelli, colorati, alla moda, accenna un sorriso e svicola via. Per sempre.

venerdì, maggio 16

Nel pieno delle cose, quando meno te l’aspetti, eccola in azione. Rotea, nella borsa rigida e nera, rimbalza da capo a fondo. Lampada tascabile, con pulsante rapido a pressione e rilascio. Ad un tratto mi soffermo, e ci penso, lei, in lotta perenne di spingi e rivieni, si appiccia. Che irriverente! Il saldatore, illuminato, è sorpreso in combutta con la bomboletta dell’olio. Fulminato dal raggio la scatoletta arancione e quadrata sborda le viti che, indispettite, nervose zampillano sul tubetto del grasso, che, destato dall’ondeggiare, e cambiando moto, urta la lampada e rispegne il fascio. Sorrido al pensiero, qualcuno alle spalle nicchia, per un attimo sono meno solo.
Ho una borsa che vive, una lampada che vibra e si accende di luce e immaginario. E’ bello avere compagni di viaggio.

lunedì, maggio 12

Ci sono tratti di nostalgia che mi attraversano, sento tutto passare e svanire, e la sensazione mi apre un vuoto insanabile. E’ difficile a volte codificare i segnali, tradurre blocchi e stasi in messaggi verso qualcuno o qualcosa. Tutto sfugge maledettamente, non c’è tempo e modo di gustare e vivere e si è già oltre, eternamente altrove. Lo sapevo, e l’ho scritto, è meglio che le cose rimangano per quello che sono; che un blog rimanga una traccia sullo schermo, virtuale, ma forte e vero come ogni cosa che sorge dall’essenza della nostra mente, dallo spirito. Si, perché Sabato – questa è la mia opinione –, al webbit, non eravamo noi, profondamente, volevamo apparire, essere brillanti ed efficaci. In fondo siamo padri e madri, partoriamo blog, che poi si affrancano e volano via, con una loro storia, una loro vita e autonomia. Non ho trovato le tracce profonde, i nostri amati blog, propensioni dialettiche uniche, tanto da farne un evento, ma solo persone – parafrasando Pirandello – in cerca d’autore. Eravamo schiere d’amanti, appassionati nel raccontare il nostro amore che era inevitabilmente altrove. Eppure il vuoto è lì, lo sento e ne sono preda. Eccezionale internet o il virtuale, se preferite, impossibile altrimenti unire cento o più persone, come nella stanza del libro di la Pizia, cosi eterogenee nel modo e voglia di esprimersi, eppure così sottilmente assonanti. Abbiamo vagato nel gusto della parola, nel suono pronunciato, attraverso il senso dei silenzi e degli sguardi roteanti e incantati. Pur contraddicendomi, mi manca Sabato, l’ultimo, che in un’ora ha esaurito la sensazione rara di essere a proprio agio. Condizione unica, per me, fuori per definizione, pendente tra punto e canto.
Vorrei scrivere, ora, e non abbandonare rigo e traccia, vorrei rivivere la bellezza di Sabato, sperando in altri cento.
Complimenti a Eloisa, o a chi per lei, per avere scelto un Sabato. La Domenica sarebbe stata già diversa, con noi pronti a ritornare.

domenica, maggio 11

Oggi sento la primavera. Finalmente. E’ il momento dei propositi, l’attimo per osservare e prepararsi. Sono poche le cose che mi stimolano profondamente, e sono sempre quelle. Da un po’ cerco il giallo paglia sparso per i campi e diffuso prepotentemente nell’aria, e un angolo dove aspettare il sole all’orizzonte. Vedo mutare il giallo in oro sotto i raggi obliqui del sole, è un momento che rigenera e tempesta di emozioni. Da qualche tempo, la linea sinuosa che argina i ricordi si confonde con le emozioni. Nell’inconscio c’è qualcosa che mi rende estraneo ad ogni cosa e si rifà ad un ambito in cui ero ma non sapevo, come sempre quando di qualcosa si fa parte. Ogni giorno c’è una lotta e una ricerca ansiosa, ogni momento ha un reale contingente e una propensione. A volte mi osservo, sbircio dall’alto, poi mi abbandono. Sento voci distanti e occhi che mi fissano, assisto a dialoghi come fatti da altri, eppure vi dovrei partecipare; quel corpo che si muove e soffre sono io.
Al ritorno, da qualunque posto sia nel frattempo finito, abbasso il finestrino per uscire la mano e oppormi al vento. Modello l’aria e la coloro, apro le dita a ventaglio per creare quattro raggi che plasmo e violento. Punto l’indice e via, il verde scompare, tutt’attorno diviene è paglierino; basta un cenno e soffia lo scirocco, il sole, che aspetta l’istante, si abbassa e tinge. Respiro profondamente, e apro le palpebre. Avrò qualcosa da scrivere e raccontare, avrò attimi ancora per stendere ponti e aspettare.

giovedì, maggio 8

C’è del giallo sulla scrivania. Non , a decine, i Post.-it, che oramai non evidenziano niente e ricoprono solo di un tappeto imperfetto ogni ufficio. Una piantina grassa ha preso posizione, sgomita tra fogli, matite e telefono. Non bisogna preoccuparsi, ha preso le sue contromisure, e quelle spine bianche opposte come denti ringhianti sono un monito. Ognuno a suo posto, via gli intrusi, quell’angolo è suo. La fretta, lo stress, gli squilli, non la sconvolgono, serafica è lì, in bella mostra, evidente solo a chi si sofferma. L’interscambio dialettico è semplice, io l’osservo, lei è già statica e pronta. Da qualche giorno evado e la porto con me, i gomiti adagiati alla scrivania, un pensiero che fuga verso una luce e una finestra immaginata aperta. Lei la tinta di colore, il medium per svanire e vagare.
Da un po’ gironzola, e il suo tremolio cresce. Non tollera intromissioni, e di essere solo una piantina riversa. Mi segue, e avverto delle suppliche. Capisco, ora , quelle invisibili movenze, e il fusto verde e monolitico. A volte bisogna essere silenti, e di questo lei ne ha fatto un’arte.

mercoledì, maggio 7

Mi soffermo ad ascoltarne il suono. Parole, che incidono la mente, pendenti tra i contrasti dei fogli bianchi e le movenze ritmate delle labbra. Sento il vagare in versi, e mi emoziono. Libero la memoria e ne concedo il transito; a tratti emergo violento e fagocito sillabe ed essenza. Ho sorbito la frescura di un torrente, dove cristalline stillano parole spioventi. Ho spiato echi inclini e febbrili che tondeggiano in danza. Plano tra quelle navette sonore, da rivolo in rivolo, sospeso in un racconto che non ha voci, ma immagini e sguardi.
Da punto a verbo, tra le righe delle pagine di un libro, muovo l’indice con l’ansia di flettere il reale e lenire ogni pena. A volte offro il ventre a un parto, le parole si nutrono della mia linfa e impassibile le sento sfuggire. Non c’è più intonazione e tratteggio a colorarle, vivono indipendenti e irraggiungibili.
Tra i rimandi osservo le virgole, poi gli spazi che scandiscono tempo in un effluvio di corrispondenze.
Fernando, Fernando, folgorante presenza in una rincorsa di facce prepotenti e scalzanti.
Fernando, Fernando, viaggiatore impareggiabile tra cumuli di simboli alienanti.
Fernando, Fernando Pessoa, poeta del controverso, dell’amore perché mai citata.
Fernando, Dio della parola Suprema.

In un sogno convergo in un’idea, svanisco in un sentimento e vivo in una sola parola.
Ora, già desto, sono solo tratto, suono e idea.

domenica, maggio 4

E’ il sogno che ricorre, ma di solito ricordo, scolpiti nella mente, solo quelli fatti ad occhi aperti, mutevoli e cangianti. Io che cammino diffidente, che mi muovo a margine di ogni strada e che accellero il passo. Provo, anzi riprovo, dopo quell’anno che mi sono voluto fermare e l’altro che me lo ha imposto. Sogno, quasi ogni notte, io che corro, che tento, che sorrido e vado. No, non mi fermo più, presa la rincorsa è il momento di vivere. Tutto il resto della mia esistenza, quella latente, ma vera quanto la reale, vaga nel grigiore dei pensieri offuscati. A volte ho la sensazione che si vive in più dimensioni, e ognuna di essa è quella vera, in quel momento.
Oggi sorrido, osservo e sento. Mi muovo a scatti, ma mi fermo. Spingo Lidia che ruota il capo, mi osserva con sfida, si solleva e m’insegue. Questo istante è andato così, tra libri in cumuli stantii aspettando d’essere letti e singulti mai battuti, su questa tastiera troppo ampia per potere svolgere la propria musica. Chi non ha mai corso forse non potrà capire. Correre è vivere per chi ne conta i passi, e aspetta il sordo impatto della gomma sull’asfalto. Per una volta un’idea folgora sonno, vita desta e pensieri. Perché corro di notte, corro all’albeggiare e nel giorno, tra riflessi di monitor e persone in fila. Proverò a muovermi, lo so, passo dopo passo, ciondolante, come sempre. Non è tempo di fermarsi, per quello c’è domani. Arriverò, vedrete, quando fisserò una parete qualunque e allaccerò le scarpe. Andrò, lento e profondo; le prime gocce di sudore scorreranno lievi. E’ quasi un disegno, ed è sempre così. Controllerò il mio respiro, affannoso, è chiaro, ma cosa importa, è il mio tempo scandito. Respirerò ad oltranza e profondamente, alzerò le braccia e mi arcuerò in avanti. Voglio disperdere il mio pensiero, come ogni volta e come sempre succederà. Non ci sarà tempo, perché già spazio, ne ostacoli o dolori. Ci sarà, quello sì, uno sguardo incantato, e cielo riflesso tra piedi e orizzonte. A chi è diffidente, a chi legge ma è già distratto, basta volare a Palermo a ora tarda e attendere la notte, dopo un breve sonno e un lieve pasto. Indossi delle scarpette morbide nella piena ombra della notte per svicolare, poi, verso la Favorita. Ridiscenda verso il mare, tra la pace della luce che s’alza e l’odore della terra umida. Sfiorato Mondello e la sua rena bionda e salata, risalga tra i tunnel d’alberi. E’ vita e sensazioni. E’ un percorso che non ha termine. Pura propensione verso cui io ora mi muovo.

venerdì, maggio 2

A volte passa tempo. Tra un tasto e l’altro, una pagina o un pensiero, bastano pochi secondi oppure ore, o mesi, chissà. Non ho mai sospeso questo blog, angolo remoto, semplicemente ho avuto niente da dire. Ho avvertito il pudore per i miei pensieri, e sono stati lì, ad ascoltarli sorpreso, a tratti avvinto e stremato. Questo mi avvince, la possibilità di tracciare un sentiero e poi sparire, per riapparire mille e più volte con apparente illogicità. Non ho lettori a cui devo o che pretendono, non so neanche se ho lettori veri, dato che le statistiche rilevano fugaci passaggi.
Ho letto, scritto per me, e per il solo gusto di far scorrere una roller su di un foglio di carta. Mi sono fermato più volte, per decine di minuti, sulla pagina di questo blog, non ho avvertito impulsi e con un click ho chiuso finestra e propositi. Blogoltre mi ha ospitato, per l’occasione ha apparecchiato una sezione, lettere in ombra; poi ho letto, ancora, per abbandonare libro e sonnolenza e passare oltre.
Ci sono cose su di cui poso lo sguardo, in cui mi perdo e viaggio. C’è un mare che mi catalizza, verso cui avanzo lentamente e diretto. Stringo i pugni, sfibro una tensione e riempio i polmoni dell’aria pungente densa di gocce salate e polverizzate. Avverto la solitudine e il bisogno d’essa, il vento stringente accentua il mio pudore.Chiudo gli occhi, dai piedi risale la frescura che trapela dalle onde, la spuma frizzante spinge indietro le mani. Quel soffio struggente è una pista da ballo senza dame e danzatori. Nel mare per il mare avverto la via di tutto.