lunedì, settembre 29

Vedrete che non persisterò, non ho quella fatua energia che tutti credono. Un momento, e svanirò, basta poco; a volte una virgola fuori posto o un punto inopportuno. Non ci sarò a quelle danze intentate, sarò già altrove, disperso. Tutte vittime, tutti carnefici; questo il cruccio. Non so quanto resisterò; spalle alle pareti d’una fossa imbraccio fucile e guanto, come invece vorrei chitarra. E plettro Aspetto, sono colpi, tuonano ma non mi muovo; fronde d’acqua svirgolano dall’elmo rilasciando pozze di fango. Non ho occhi, non ho sguardo, ne lacrime da versare, confuse a boccoli di rigoli acciancicati di sudori. Un momento e m’alzerò, incurante delle altrui armi; avrò appena pronunciato ‘’no’’ e farfugli insensati.

Vedrete non ci sarà bisogno d’addii, ne sguardi o mani volte. Alcuno impegno, nessun pensiero, dubbi o memoria. Tutto scorrerà placido, orrido come la linfa sordida che scorre da vico in vico, ai lati, calpestata, offesa, dilaniata, come il tempo che ci sorprende intenti alla notte.

domenica, settembre 28

Qui la luce è spenta da tempo, non occorrono domini o blackout. Ogni sera cala il sipario, a guardar fuori si può solo constatare la costanza: lo scuro. L’alzarsi nella notte è diverso; qui i cataclismi non provengono, ma fuoriescono. Così che, volte le cinque, con il bagliore della sveglia, mi sono calato giù per le scale; oltre la tenda, finestre spente, da casa in loco. Non è successo niente, la solita mancanza; quella che al mattino volge, e inizia la vita. Imbracciata la torcia; è sempre sul forno, quella; ho inquadrato la porta, il bagno, e for di equivoci sono entrato per collimare i tempi e ripartire da un punto comune. Di fronte a tragedie, come nel futile, o quotidiano, siamo propensi alle solite ambasce; perché questo è l’uomo, e a nulla val riflettere, tanto lo siamo; uomini. Rimossa la tenda con quella movenza di cui sono soliti i vigili, nell’intento di muovere virgole d’auto col cenno d’una mano, mi sono soffermato a pensare. Qualcosa non collimava; Iddio sa quanto questo è importante. Tra collina e nugolo di case, c’era oltre al solito svettio d’aria da cui sode la presenza d’auto rimeste; un fascio diretto di luce, poi un altro; un paio assieme, infine, in quell’incrocio di cui il tempestio fotonico è la quinta. Qualcosa ho trovato nel pozzo delle indifferenze; questa notte non è scorsa come le altre, un segno è rimasto. Non cinismo insensibile, il mio: ricordate? qui cataclismi s’appressano fora, mica bussano tra uscio e porta.

lunedì, settembre 22

Ho visto una persona con gli occhi tristi, era l’uomo più felice del mondo; era un prete, lui. Mi ha raccontato del suo tempo, quel tempo che oramai è andato, sperduto, quasi irrecuperabile. Ha ricordato i suoi giorni successi un tempo, dell’incerto, dell’oggi; di quella luce che nel culmine del campanile brilla in una punta metallica. Ascoltavo, non sapevo cosa chiedere, se parlare; ho attraversato il suo nodo in gola tra palpebre in socchiusa attesa. Attorno, alle spalle del campanile, tra chiesa e canonica c’era quell’impero che è la quiete in un campo sterminato di silenzio; gli odori inseguivano quei trattori che frenando le auto costringono in riflessione.
Ho incontrato un uomo diverso; se avesse avuto un’altra faccia o un altro nome, se non fosse stato sacerdote solitario di conquiste, non l’avrei mai guardato negli occhi. Uomo diverso, lui, o forse come tanti mai lambiti. Dovremmo saperci guardare, noi uomini. Dovremmo.
Sono andato via, con il mio solito rosso; sono scomparso dietro a quel vico che si avvicenda tra case di persiane serrate, pareti ombrose e passi disadorni; ha teso la mano, mi ha appena osservato con un tirato sorriso, niente di più, niente d’altro. Ho visto quegli occhi, i più tristi che abbia mai scorto; gli occhi tristi dell’uomo immensamente felice.
Vento di Libeccio, soffio che svetta tra le pareti di un corridoio di mare; ecco ciò che siamo; umidi e pregni, figli di un incrocio di storie spente. Vento di Scirocco, questa l'ira che opponiamo per rinsecchire le fatue voci delle menti, per spezzare la resistenza strenua di ginocchia folli di fremiti. Aria, quindi, a soffocare oltre il respiro, inconsistente e letale come il veleno in dosi massicce.
Di dì in dì stilliamo l'ansia di impervie missioni e sopravviviamo in fortilizi spavaldi. Quando financo l'etere non contiene le gesta, si scaglia il folgore che nell'attimo uccide. Non c'è lacrima, allora, e cala il vento; tutto è chetato e la vita ricomincia.

domenica, settembre 21

Per scrivere devo essere connesso; sempre più di frequente questo succede. Ho bisogno di sentire, avrei il piacere che qualcuno potesse ascoltare, cerco di stabilire un contatto senza il quale non esisto. Semplicemente – Dio! Se costa la semplicità - non ci sono, altrimenti; svanisco tra idee aride che senza il confronto non saranno mai pensiero. E’ un peso, per niente favorevole: chi osserva ma non aspetta, chi sorride ma non ha interesse, chi pone l’indice. Non sono un’unità di produzione, né l’elenco casuale di modelli e postulati; perché è così complesso capire questo? Perché qualcuno v’è sparito, e per sempre, e nell’oblio sordido tutto continua?
Il tempo c’è, in quelle lumini verdi paralleli che di tanto in tanto echeggiano, e ci sono, e ci siete. Tutto c’è già per averlo osato, in fondo non servono queste righe, quest’energia; vorrei che qualcuno potesse alzare una mano ondeggiandola in un ''ciao, ci rivedremo''.

venerdì, settembre 19

La devo l’isola felice; schiuse poche pagine annoto qualcosa, curo i rimandi, focalizzo i tratti. C’è un tepore da ripercorrere, ogni giorno alla fine del dì per ricreare uno scenario solito, per sentirsi a proprio agio, meno estraneo in terra patria. Quei soliti giornali, quel caffè scuro a prescindere, quei pensieri rivoltati di continuo. Mescere come dei liquidi le parole, e ricercarne il senso, che non è nelle frasi, ma nell’ordine casuale del Fato che determina. Punti e virgole vivono una propria vita, fuori dai periodi, che sono mode, svettano su fogli intingendoli, innalzando toni striduli. Mi arrendo, queste vocali mi attraversano, sono indomabili e per niente consonanti.

giovedì, settembre 18

Il perfetto è riproducibile, l’imperfetto no. L’esatto è rappresentabile da modelli matematici, perpetuabile all’infinito. Ciò che lesina le rughe, che volge al lato migliore, che non ha tracce, ma solo direzioni univoche, ci stanca, ci affievolisce, ci sottrae il piacere. Inclini al vizio, laidi d’effige e spirito, siamo diversi nella forgia financo all’io dell’attimo prima. E’ la forza umana, quest’intangibilità dell’effimero vagante e del muoversi scomposti. L’indole, il carattere, l’inno al sentimento drena dalle storture, dal fango, dalle deviazioni immorali. Vogliamo sovvertire dissacrando, ''arriderci dell’arciere'' dissimulando sino allo stremo. Iracondi, scherniamo il Fato; ironici sviliamo stelle e curve celesti. Tendiamo al meglio, intrisi di loschi pensieri, magnifichiamo estatici e percorriamo brevi angoli funesti di luce tagliata su cocci sparuti. Vorremmo essere, ma in fondo non serve; intenti carpiamo lapilli riversi dall’alto, fiamme con cui bruciare arsure e vivere l’attimo. Questo è già tutto.

mercoledì, settembre 17

Ed ora che il tempo è trascorso sono rimasto sul bordo ad osservare. Del circolo dei come e dei perché spalmo ogni tratto di pelle. E’ questione d’identità, ma chi ha voluto credermi ora si è già dileguato oltre nuovi dislivelli. Non rimane che intentare il ritorno, quindi rigirare il bagaglio e scioglierne il lazzo. Qualcosa da recuperare c’è sempre, non tutto è zavorra, come è insavio ostinarsi ad insidiare la memoria, qualcosa c’è ed è li, dell’altro è disperso, e non c’é nulla da fare. Credere è oggi l’argomento, questo duro baratro pronto a risucchiare. Quegli abbandoni che mi erano consueti sono divenuti deste veglie d’attesa; tutti e assieme ci aspettiamo e incrociamo inconsapevoli e frettolosi, e direi incuranti, perché alle spalle tutto volgiamo. Insomma si è svelato, il meglio, o ciò che di lui crediamo, è già trascorso immobile come il più comune dei falsi. Nell’alba; un motivo per fugare.

martedì, settembre 16

Vedi, ho cercato di scriverlo ma non m'è riuscito. A poco sono servite queste parole, se l'ardore ha mancato poi l'allietare di corrispondenze fuori porta. Ho carpito, alterato e forviato righe; alcuna goccia ho mai lasciato colare all'arido dissesto, ne ho preteso l'umore e prosciugato il solco. Ibernando certi attimi ho irrigidito la mano; immobile, s'è storto in gola il solo lamento, qualcuno guardando ha volto il capo sfoderando il giudizio. Siamo astri sollevati e lontani, bisognosi del filo che alla terra ci unisce, per sentirci vicini, pur lontani e ignari. Non aspettandoci niente muoviamo il nostro proclama, nulla può lenire l'arsura e quel profondo d'acque che intrigato é il nostro pensiero. Distratti d'ogni fatuo fragore siamo qui, ma é come dire altrove.

lunedì, settembre 15

Parlo, qualcuno ascolta, ha voglia di farlo. Cosa non comune, non c’è tempo, lo sappiamo, bisogna scivolare tra fogli, carpette e mattoni lucidi di polvere occultata. La luce arriva alle spalle, e parlo, nessuno si distrae, sembra quasi che in divenire possa dire qualcosa di interessante. I dubbi sono moti, come sempre; nella normalità che immagino, guardo con sospetto. Non sono distante, non lo sono mai stato, quanti hanno cercato di capirlo? Una schiera minoritaria, forse, che inesorabilmente si sperde ad ogni volgere di quel dì che ostinato prolungo nella notte. Continuo, recito un copione, ma non voglio andare via; ho qualcosa da dire, come tutti su questa terra, e tutti piangiamo le insipienze dell’altro. Qualcuno si traspone e osserva, me e chi ascolta, ne avverto la presenza che compone un ghigno; tutti tra se e se pensano le stesse cose; l’incapacità di comunicarcelo, è questo che ci rende schiavi.

domenica, settembre 14

Ciondolo spesso da una strada, osservo, non so cosa, il più delle volte inquadro per istinto o per il gioco delle probabilità, tanto chi osserva non sa, e anche a me non è dato sapere. Ci sono drammi nel nulla, e spesso sono alle spalle, in silenziosa attesa oltre l’evidenza. Ci si può interrogare sui livelli, su quante profondità esistono, ma non si finirebbe mai d’indagare. Lui sa, storce la testa intrisa nel bianco e passa le sbarre; sono due di metallo scuro e temprato, non c’è bisogno di toccarle, sono calde e roventi come si potrebbe immaginare. Niente d’altro, e una pupilla lo conferma, socchiusa quel che basta; l’altra gocciola un febbrile malore, ampia è disposta all’insù. ''Sono vigile, sono cane, non fingo pensiero, perché non posso ergerlo'', questo trapela; abbassandomi, chinandomi, intravedo il muso composto e bianco che non lascia incertezze: sa, per dolorosa esperienza, che non capisco. E’ così che succede, ed è la notte dei tempi; il verde emerge alle spalle, ma incrociando i processi, falsando le righe. Viviamo tutti con alle spalle qualcuno, fosse anche l’ombra dei ricordi o i pesi-zavorra da cui non ci liberiamo. Non ho compreso, ed era previsto, mi sento a disagio: sono scorsi gli anni il cui richiamo echeggia già da allora.
Questo gesso tra le mani
conservo,
colori in maschera
di forme incerte;
uno sguardo dipinto
che s’agita e riprende.
I lobi odono
tenzoni certe ai due,
forte tu, e non lo mostri
sei, e ti ho visto.
Ergiti, basta un guizzo
poca polvere
ma non aspetto cenni,
l’oltreverso solo immortale.
Guidami,
taciturno cerco scarne voci
nel solco di illusioni
e avi al mio cospetto
dove volgo ogni dì incerto.

mercoledì, settembre 10

Ogni mattina sono le sette e trenta, apro una porta, giro una chiave,
imbocco un tunnel lungo un paio di riflessioni, o almeno quattro canzoni ben
assestate attorno ad un disco. Non c'è coscienza, non c'è volontà, dietro
certe azioni, solo abitudine al movimento e alla parola, o, piuttosto , al
silenzio. Dalla prima traversa scende la stessa figura, esile, sommessa tra
il capo chino e le mani ondeggianti e appese a due braccia. Quel passo
disattento, consueto arredo d'ambiente, è dapprima divenuto la certezza del
tempo, poi riferimento spaziale e, infine, compiaciuta certezza
tranquillizzante. Vorrei sostare, vorrei chiedere e sentirne la voce, o
incrociarne lo sguardo e indagare nel velluto delle ciglia. La livrea
rigorosamente nera, per scelta o constatazione, i movimenti sciolti, destati
dalle prime luci e due guance pallide e insolubili alla pioggia, qualunque
essa sia. Giusto in quel punto ho un sussulto, ogni mattina, ogni giorno, da
quando per caso, come tutto ciò che ha un senso, è apparsa lei. Accelero, mi
muovo, salgo e svolto, ancora. Dritto, poi, per un tempo indefinito;
serpentoni a ritmare, clacson, semafori, ecco la terza traccia. Mi fermo,
lo devo, c'è una voce ora che legge un giornale; il primo piede è sull'
asfalto, tra due sportelli serrati la radio che gracchia, non spengo, che
continui tra sedili e vetri. Dentro, il solito aspro caffè, una tazzina
calda, nove tavoli a gruppi, sul primo Gazzetta e Vicenza lindi al mattino e
immolati alla sera. Un bicchiere rosso a macchie di vino, una grappa a
correggere, tre facce, poi il silenzio. Lei è vestita di nero, ancora, a
mimare una divisa, con gli occhi spalancati a guardare altrove perennemente;
se la chiami, se le parli, passa l'iride da un lobo all'altro e svanisce nel
nulla. Lei non sorride, mai, non parla, non osserva, vive e si muove, scorre
tra banco, pavimento e richiami. Vive lanciata nei ricordi, confusa tra un
dove ed un perché, si attanaglia, piega l'anima, vomita la memoria, sia
rialza e riprende. Sacerdote discreto, osservo, assaporo di quel nero l'
amaro, volto le spalle per flettere lo sguardo e sentirne i lamenti.
"Grazie", ho detto oggi all'incontro tra piattino e banco d'acciaio,
"grazie" ha proferito lei, con una movenza della bocca lenta a dismisura,
avvicinando a me il capo chino all'indietro e a destra. Degli occhi solo il
solco inferiore aveva un senso e una lieve sottolineatura, bianca; non so se
per recitare un copione previsto o se per lasciar drenare dell'umido e dell'
acqua.

lunedì, settembre 8

Lettere, si, questo devo perseguire. Consonanze con proprietà vocali; parole disposte, vagamente inclini; tamburi oltre l’orizzonte; io che osservo, fuori scena . Aperta quest’ora, nel solco dell’ansia che pervade il Dio dubbio. Ho viaggiato nella corsa d’un chilometro, esausto, fermo; apro gli occhi appena, errante nell’intento di sostare. Notti verticali discese; favole, riverse prive di colori; sogni insonni di calure roventi.

S’apre
e sperando s’attende,
voltato il risvolto
il transito emerge,
quanti migrano
tra corse e fiori
spersi all’incrocio
di pali e luci
in file immaginate
che s’odono
ai fianchi di fronde e croco.