giovedì, novembre 21

A Mariemarion e a quegli amici che vogliono leggere.

No, un eroe proprio no. Semmai il contrario, un anti eroe. L'eroe è sicuro di se, impavido, fiero e duro, sfida il destino con la sua spada sfidando eserciti. Mai e poi mai si immaginerebbe battuto, sconfitto, dimenticato. Io non ho certezze, se non per la voglia ardita di fare, e di proseguire. Non ho risposte, a nulla, solo domande che da poco, o da sempre, rimbalzano come echi impazziti nella mia mente. No, non mi ci vedo proprio nell'effige ciarliera del "sicuro e refrattario". Mi dispiace, non sono impermeabile, traspiro da ogni poro e mi mescolo e confondo continuamente con ciò che mi circonda. Ho bisogno di continue conferme, perché sono un uomo e questa mia condizione è insita nel pensare, gioire e soffrire. Sono così, e altrimenti non vorrei essere, rivendico il diritto alle mie debolezze, che riviste e rianalizzate sono la mia forza, in quanto foriere di quella sensibilità che è centro e fulcro del mio essere.
Ricordo l'Agosto del 1992, se non erro, erano le sette del mattino, eravamo in pochi e testimoniavamo l'ideale d'una terra libera, la Sicilia, dall'oppressione storica di Cosa Nostra. Quella Mafia, che prima che esplosioni e sangue è sfaldamento inesorabile della dignità umana. Ad un tratto entrarono i baffi d'un omino in vestaglia, basso e un po’ goffo, come negli anni all'uomo succede. Era Gianni Minà. Ricordo che prese il telefono, chiedendone il permesso, e accennò un dialogo tranquillo, ad una persona che immaginai fosse un amico, e atipico, per l'orario e il contesto. Poi si sedette e non si fermò con noi, ma fece in modo che noi ci fermassimo con lui. Sorseggiando un caffè ci parlò come a vecchi amici, non per il tono, ma per la sincerità dimostrata. La mia labile memoria ha trattenuto poco di quelle parole, ma c'è una frase che riposto nel mio bagaglio storico e che fa parte di me: "...ricordate che dietro la parola ottimizzazione si sono consumati i più atroci crimini dell'umanità...". Ho fatto talmente mie quelle sferzanti parole che, trasponendone il profondo concetto, ciò che è limpido, univoco, inalterabile e composto mi induce, oggi, un sibilo che sa di sospetto. Non sono circolare, ne inscalfibile o chiaro. Ho corso per anni 25 chilometri ogni due giorni, non per la mia brillantezza fisica, inesistente, ma perché ogni volta era una scommessa con me stesso, l'ho fatto con una cisti che mi adornava e sfaldava il perone della gamba destra. Faccio le mie scelte, assurde e controcorrente quanto possano essere, non in virtù di una luminescenza che mi sollevi da terra, ma perché da sempre inseguo quell'ombra che mi sfugge e che sono. Lento, pesante e sgradito, ciondolante, come nel passo, ho poco da mostrare. Vorrei solo comunicare, ai pochi attenti alle sfumature e a me, tra grovigli di sensazioni e lassi vuoti di tempo.

giovedì, novembre 14

Ora che dal sonno mi sono destato, riemergo dalla mia personale linea di galleggiamento. Basta indossare quei panni inevitabilmente dismessi, basta quelle due tute, ora una ora l’altra, simbolo e saio d’un assopimento indotto e deleterio. Basta con quei farmaci-bomba, deflagatori del corpo e dello spirito, quindi la mente. Basta con la chemio fatta di protocolli, in me non c’è funzione e algebra, non ci sono statistiche ne tantomeno calcoli da applicare. Sono un distratto vascello che sente, che vive e segue l’onda delle emozioni. Non voglio tappi da piazzare, perché la marea non mi travolge, è la linfa su cui mi adagio, anche se sfinito e un giorno sarò finito. Lieve avanzo annaspando con qualche bardotto spezzato, ma deciso e fiero. Basta aghi sulla pelle e freddi liquidi che violano la mente. Che nessuno sia avvicini con pasticche e intrugli per spegnere il pensiero e nessuno riprovi a dirmi che bisogna, e che “vedrai, poi starai meglio”.

Un mattina, per i più come tante altre, mi sono adagiato ad uno specchio e lì, tra luci, riflessi, c’era uno sguardo. Non era il mio. I capelli, su quella testa bianca e assurda, erano stati falciati da quel veleno che ancora sentivo scorrere nelle vene, le mie. Poi tutt’attorno quella tuta, una volta simbolo di energia, era l’ufficiale divisa della mia decadenza tra braccia restie a sollevarsi e scarpe troppo grigie per trasportare altrove qualcuno.
Basta! Ho cacciato un urlo, morto in gola prima di nascere. Basta! Mai più, quel profondo pozzo coperto, privato della visione della luna. Basta con pasticche, veleni e compresse racchiuse in quelle smodate scatole, troppo rigide e grigie, adornate da quegli assurdi foglietti privi di colore e di vita.
Ho rimesso i miei panni, i soliti, quelli con cui da sempre scivolo e sorrido, raramente modulanti da quel blu che è una traccia e una propensione.

Mai più! Basta con la chemio, lascio quelle sacche pietrificate e quelle corsie d’ospedale troppo sorde per ascoltare quei lamenti che vanno sedati, impediti e a volte scordati.

Voltate le spalle, e data l’esigenza, do uno sguardo altrove, per capire se c’è un’alternativa alla cura di un tumore, che non dissesti e che lasci respirare e pensare. Cercando ansiosamente trovo una realtà assurda, ho la conferma che non sono poi così folle lasciando la chemioterapia. Scopro che dietro quelle maledette sacche ci sono, ben solidi, gli interessi delle multinazionali del farmaco e di tutta la solida barriera dei medici-baroni, conniventi per interesse, per il soldo e l’avidità. Mi si accende un sipario di persone prese in ostaggio da questa folta schiera del malaffare del farmaco, giacenti in fondi di letto, usate, e poi dimenticate.

Ho scoperto l’allettante verità che si cela dietro campagne pro-lotta contro il cancro, sponsorizzate dalle varie reti televisive per fare ascolti, sempre e solo quelli. Rileggo ora le fredde facce dei luminari di turno seduti in una comoda poltrona d’un caldo salotto a dissertare di cure, di progressi (?) della ricerca, di soldi – sempre quelli – che servono e tanti. E via con strisce sul video di indirizzi “utili” e numeri verdi da chiamare per contribuire con tutte le schiere di carte di credito possibili, e dietro, alle spalle dello show, numeri che scorrono sul display gigante: i nostri soldi che si perdono nel fiume delle bramosie.

Ci sono schiere di medici, invece, che alternativi e non filo-governativi, conducono giorno dopo giorno, da anni, una ricerca solitaria, non finanziata e anzi osteggiata. Sono dei ricercatori che rischiano sulla propria pelle, perché ritenuti eretici, quindi fuori dalla grazia della legalità. Sono uomini che vengono radiati dall’albo medico, arrestati e rinchiusi in celle di carceri. Perché non si cerca di capire, non si sperimenta a largo raggio su intuizioni spesso geniali. Il business delle sacche di chemio deve continuare, troppi gli interessi in ballo per rischiare che un “medicuncolo” qualunque faccia saltare l’affare del secolo, che supera in fatturato il PIL dell’intera Francia. Invece di integrare certe scoperte alle già esistenti ed ufficiali, invece di coordinare tutte le idee e di lavorare in pool, viene ritenuto opportuno stroncare sul nascere i “ribelli”
In Italia il caso più clamoroso si ebbe qualche anno or sono con il Prof. Di bella, che solo l’onore delle cronache ha salvato da precauzioni violente. Quando I baroni capirono che l’opinione pubblica premeva, acconsentirono alla sperimentazione. In ospedali con primari preconcettualmente, e interessatamente, contrari, che somministrarono a malati terminali il coctail di farmaci, poi scoperti scaduti da diversi mesi. Ora Di bella è ritornato nel dimenticatoio e sembra che qualcuno di quelli che l’ha osteggiato utilizzi quel metodo facendosi pagare cifre astronomiche e unendo affare ad affare.

Tra i tanti ricercatori che vale la pena di seguire e che hanno condotto degli studi molto interessanti il Prof. Ryke Geerd Hamer è uno di quelli che trovo più interessante. E’ difficile trovare qualcosa di informativo sul suo conto, perché agli impedimenti della medicina ufficiale si unisce, in un connubio perfetto, il muro di gomma innalzato dai media. In Italia è reperibile un solo libro su di lui: “La medicina sottosopra – E se Hamer avesse ragione?”, autori Giorgio Mambretti e Jean Séraphin e casa editrice Edizioni Amrita. Per farsi un’idea generale si possono leggere notizie interessanti sul sito disinformazione.it. Hamer, di padre tedesco e madre italiana, sostiene che ogni tumore ha una causa biologica pilotata e voluta dal sistema di controllo del nostro cervello, che interviene determinando un tumore su di una parte del corpo che ha subito un trauma. Il tumore, quindi, nella concezione di Hamer, è una “riparazione” voluta e necessaria e che non va osteggiata ma letta, capita e seguita nel processo naturale di svolgimento. Non ci sarebbero quindi fattori ambientali, effettivamente mai definitivamente provati, a determinare un tumore, ma solo un processo interno a noi stessi. Non esisterebbero neanche le metastasi, ritenute nient’altro che tumori aggiunti in altre parti del corpo causati, a volte, dal non aver seguito correttamente il processo biologico. Il mezzo diagnostico di Hamer è una semplice TAC senza mezzo di contrasto all’encefalo, da cui si possono individuare dei focolai (zone indice) da cui evincere lo stato del tumore. L’intento è quello di guidare il corpo all’estinzione del tumore, ma nel momento in cui il nostro cervello ha esaurito il processo biologico di riparazione. Altrimenti, se si anticipa o posticipa il periodo, il tumore rimane latente e si ripresenterà. Hamer definisce la sua teoria “legge ferrea del cancro” definita esposta in cinque enunciati.
Io ho incontrato il suo seguace in Italia, il Dr. Samorindo Peci, e devo dire che l’ho ritenuto molto interessante. Non mi sentirei ora di dire che in Hamer c’è la soluzione assoluta al problema, sicuramente, però, apporta delle novità che andrebbero studiate meglio e approfondite. Una collaborazione tra le diverse teorie innovative, della cosiddetta “nuova medicina”, e la medicina ufficiale sarebbe auspicabile, ma ad oggi, purtroppo, appare utopistica.
Penso che sia doveroso lacerare quella coltre di disinformazione che vige sull’argomento, affinché nessuno possa essere ostaggio, come lo sono stato io, di una medicina senza anima. Non possiamo delegare solo agli “addetti al settore”, biechi “specialisti”, il nostro futuro, e il cancro, ve lo garantisco, non da preavviso, come non lo diede a me pochi mesi fa.

Nevermore!

martedì, novembre 12

Thor, mito nordico. Ci sono stati anni in cui sfogliavo i giornalini degli eroi, guardando attentamente le figure e distrattamente le scritte, che tanto non capivo. Fiumi di parole poste li, ad adornare le figure. Ancora oggi, però, sono quei segni, quei colori, ad accendermi l’immaginario, animando il senso tramite la forza alienante dell’immagine. Thor dal magico mantello, Mjöllnir, simbolo del fulmine. Quel fulmine da invocare e scatenare contro le nefandezze a cui non c’è rimedio. Poi il tuono, di cui Thor è Dio. Tra le mani e le braccia protese al cielo, il martello, icona monolitica della pura forza non bellica. Un ghigno scolpito nel viso, la tensione che scuote il corpo e inchioda la mente su di un punto da abbattere. Scagliato il martello ecco il tuono, potente, che stordisce i sensi ed azzera le emozioni. E’ lo spirito, l’energia, l’ultimo baluardo verso un fato di rado incline.
Ricordo quel grido lontano, ora eco nella mia mente, che tuonava nelle piccole sfide d’allora. Sfide che mai ho abbandonato, scegliendo la vita, e che ora tornano forti e più bieche che mai. Lancio saetta e tuono, blasfemo, tendendo un braccio senza martello, verso un immane arco di cielo. Immobile vibro, l’umido sguardo che non si arrende è il tuono e il martello del mio essere.