Nei ritagli della sera, emergono i riflessi opachi dei pensieri che di giorno sottacciono. Confinati in cornici artificiali, gli ideali sono pranzi pronti al fast food in discorsi intavolati nei salotti. Sempre entro le ore, all’interno dei canoni; perché poi è tardi, e il domani inizia presto. E c’è un braccio, una luce venticinque watt, dei pensieri immediati, ma necessari.
Credo di svegliarmi dal torpore e dal sogno; ma è nei meandri e nel sonno che respiro aria, e vivo. Allora penso e leggo; e mi fermo sovente, a pasteggiare rigo e logica. Ci deve pur essere una via da incanalare, da sorseggiare ginocchio dopo ginocchio, come il pellegrinaggio a Santa Rosalia inerpicandosi per Monte Pellegrino; ci deve pur essere. Nell’alambicco dialettico solitario intavolo dilemmi tra me, l’indole e la memoria altrui. Ci sarà oltre la siepe qualcuno cui scaraventare un grido; due o tre persone con qualche cicatrice nella mente.
Si vive, e di risa; un milione sparuto di passi tracolla ad ogni giro di quadrante. Qual è il senso? E’ la storia e i suoi cicli; sono risacche dell’umanità che puzza di putrido. Si può dire basta allo scempio lento e celato? Perché sono le parvenze che drogano ogni timido accenno al sentimento. E’ l’invisibilità oltre il denso muro che oggi uccide. Quello per cui, ripiegato, verso lacrime giù per la gola.
Questa è la squallida cronaca di un fischio, quella del treno che in corsa da sempre questa notte ha fischiato, come migliaia di altre volte, lacerando solo ora, in questa notte scura, la coltre spessa della scorza che ci cinge. Questo è il lamento che trasuda da una gabbia ormai lacerata; è il rumore e il cigolio delle ossa di chi avvezzo alla stasi, ha la selva a fronte. Oltre il giallo dei venticinque watt stillano lamenti; è il momento di ascoltare.