sabato, settembre 25

Ogni giorno il braccio si stende; memore ma incerto muove la mano verso la lampada venticinque watt. La luce intona la parete pinta di giallo; ogni dì. I primi pensieri scivolano da una scaletta definita e riletta negli anni, poche variazioni, solo utili e istintivi gesti propiziatori. Poi gli orari, gli impegni, le ansie. Anni che scivolano via così, come pioggia scostata da un batter d’ombrello alla fine d’ogni pioggia. Una vita così non l’ho scelta. Una tale esistenza ne mortifica il movente; che pur ci deve essere, in qualche remoto angolo sperso dell’universo. Forse in una stella. Magari quella che inconsapevolmente inseguo dai primi mesi; e sarò stato nella culla.
Nei ritagli della sera, emergono i riflessi opachi dei pensieri che di giorno sottacciono. Confinati in cornici artificiali, gli ideali sono pranzi pronti al fast food in discorsi intavolati nei salotti. Sempre entro le ore, all’interno dei canoni; perché poi è tardi, e il domani inizia presto. E c’è un braccio, una luce venticinque watt, dei pensieri immediati, ma necessari.
Credo di svegliarmi dal torpore e dal sogno; ma è nei meandri e nel sonno che respiro aria, e vivo. Allora penso e leggo; e mi fermo sovente, a pasteggiare rigo e logica. Ci deve pur essere una via da incanalare, da sorseggiare ginocchio dopo ginocchio, come il pellegrinaggio a Santa Rosalia inerpicandosi per Monte Pellegrino; ci deve pur essere. Nell’alambicco dialettico solitario intavolo dilemmi tra me, l’indole e la memoria altrui. Ci sarà oltre la siepe qualcuno cui scaraventare un grido; due o tre persone con qualche cicatrice nella mente.
Si vive, e di risa; un milione sparuto di passi tracolla ad ogni giro di quadrante. Qual è il senso? E’ la storia e i suoi cicli; sono risacche dell’umanità che puzza di putrido. Si può dire basta allo scempio lento e celato? Perché sono le parvenze che drogano ogni timido accenno al sentimento. E’ l’invisibilità oltre il denso muro che oggi uccide. Quello per cui, ripiegato, verso lacrime giù per la gola.
Questa è la squallida cronaca di un fischio, quella del treno che in corsa da sempre questa notte ha fischiato, come migliaia di altre volte, lacerando solo ora, in questa notte scura, la coltre spessa della scorza che ci cinge. Questo è il lamento che trasuda da una gabbia ormai lacerata; è il rumore e il cigolio delle ossa di chi avvezzo alla stasi, ha la selva a fronte. Oltre il giallo dei venticinque watt stillano lamenti; è il momento di ascoltare.

domenica, settembre 19

In file disordinate per la vie ed i vicoli che lambiscono il mare, spalmati dagli sguardi del sole come pomodori rossi promessi alle conserve. Al passo del leopardo l’arsura fresca si muove al guado, scivola e rimesta quiete e vocii sorprendendo tavolini adorni di granite liquefatte.
Qualcuno cerca una vecchia panchina; i listelli di ferro pur sporchi danno stabilità, il freddo contatto con la pelle invece da sollievo e speranza per quel quotidiano di sfoglie di carta che rotola tra folate di vento a spifferi e grame notizie. Poco più in la qualcuno sottace e lentamente sparisce, oltre pareti sgretole e tinte giallo-improbabili. Gente a fiumi verso il mare, che tira il primo freno a mano della stagione, mascherata dietro occhiali scuri di vetro e plastiche tinte dell’estro maldestro dell’appagamento a prezzo delle ansie.
Spiagge sotto casa, troppo distanti, rosicchiate dall’avanzare di zoccoli, confinate fuori d’ogni ombrellone sotto il quale vige l’inconsapevole ombra dell’assenza. Ventri in dentro, olii e cocco sparsi dalla battigia alle scarne conchiglie stanche dalla bancarella d’una vita. Parole della sera in discorsi disattesi e puntuali, bagni di luce tra etichette e creme di quel sole che lievemente svanisce incredulo. Verso qui, o lì; è un tutt’uno, atmosfere dense di sospiri e conteggi spalla contro spalla.
Frenesia, ansia da prestazione, fretta; sgomitolare di concetti pallidi in intrecci privi di tatto.
Non c’è festa, non c’è vacanza, s’intravedono rigurgiti di strade e mezzi folli alla rincorsa.
Mare
accogli le menti
sparti le acque
nell’immerger di corpi;

dondola
ogni bramosia
che verga l’idea
mescendo le pene.

Cielo
copri l’assenza
allieta gli sguardi
con le tinte che sai;

adagiati
carezzando le pelli
con aria e sussurri
penetrando il fondo.

Abbandonati e dispotici
smarriamo Venere;
vogliamo sentire
ora
acqua e colore.

martedì, settembre 14

Sottaciuta in un angolo attende, ripiegata sul ventre ed il capo verso il cielo per uno sguardo impreciso. Di tinte scure divise da poche strisce chiare, e di odori incenso impenetrabili guarnisce l’ombra che ne ricama i contorni. Composta nel silenzio sorride di ricordi e sguardi accennati al presente. Si impone, cattura la mente, rimane latente e letizia con il canto delle sirene. Si avvicina e non lascia scampo, lieve al tatto si lascia respirare Assieme si viaggia.

domenica, settembre 5

L’asfalto sfila sotto i polpastrelli; ruotata la mano, sembrano unti color del petrolio. Rattoppi senza forma, geometrie casuali, dislivelli, gomiti di infiniti lavori in corso per le strade. Ad ogni svolta, le gomme bramano il suolo e stridono. L’auto s’inerpica; in lontananza, dove i muretti a secco si congiungono nell’apice del biancore, l’aria ascende intingendo pozze d’acqua.

Lei ruota lo sguardo verso destra, e vede continuamente scorrere ciò che qualcuno ha scritto, che ha inserito consapevolmente in quella coreografia. Gli occhi inclinati verso il basso la tradiscono, una ineludibile diffidenza emerge dalla ricerca di riferimenti bassi, dal suolo. E’ dal sotto che sgorgano i peggiori presagi, le paure recondite; è la chiusura del finito, l’impossibilità di sfuggire, che accende il panico. L’aria, scura per quanto sia, è invece una via di fuga, ‘’l’altro’’ posto verso cui dirigere un respiro, e fuggire.

Tanti perché in fremiti composti, inghiottiti tra la curiosità d’un lieve pallore e un accenno di voce subito sopito. C’è qualcosa oltre quel finestrino, e continua a ripeterselo; facce buie, al di là del sole che li ha scurite. Passi illogici di cadenze sommesse, sorrisi e mosse sperse, improduttive anche alla comunicazione. Così gli appare ciò che vive attorno alla pietra, scolpita dalla calura prima che dallo scalpello, per far case, cortili o per nascondere segreti.

Appunta minuziosamente tutto nella mente; vuol capire, deve raccontarlo, ritornata o destata dal viaggio, dovrà riferire di quello strano Sud. Dove l’assurdo è solo tale, intesse trame, e ricostruisce balli su vecchie casate linde da vesti larghe e busti d’uomini con parrucche e accento.
Si ferma sempre un attimo prima di soffrire, prima che lo sguardo casuale dietro un fazzoletto alla testa diventi un’autentica rivelazione.
Lei osserva, ma trascrive nella mente: ''Tu terra, tu l’inganno, tu su di me e ti guardo e vieni''.

E’ una goccia di sudore che aspra stilla dalla fronte questa Sicilia. Acqua che salata brucia verso un solco sulla pelle. Opaco, si estingue in macchie collose. Movenze da non risciacquare con l’acqua fresca della fronte che lesta volgerebbe verso altre tempere.

Porta il saio; poi, solo poi, adagia la punta della biro su qualunque carta, e prova.

giovedì, settembre 2


Il resto di niente.

Certe strade sono una mostra di simboli in bella vista, schiere di icone mal riposte e sonnecchianti. Ma se accenno un commento con gli infrequenti compagni di passeggiata, vengo osservato come l’ultimo relitto di uno strano veliero-fantasma ottocentesco.
Eppure l’evidenza e lì, non richiede strani strumenti e uomini in calzoni corti e dorso nudo, con strani attrezzi al seguito per rilevamenti terrestri.

Un tempo, le discrepanze con la norma erano un cruccio, mi nascondevo dietro risposte azzardate e buoni gelati. Già buoni…perché erano tanti. Ho imparato a passeggiare lentamente e da solo, ad assopire il pensiero, prima ancora che la cadenza, e a boccheggiare sorsi d’aria per riespellerli in strani fischi. Libertà insomma, di pensiero, perché il giudizio l’ho postdatato come certi assegni incerti all’incasso.

Palermo ne espone di stranezze; angoli, accenni di vicoli, campetti brulli o porticati abbattuti. Metafore di altro e di altrove.
Così mi sono concesso uno spettacolo unico, irripetibile. Di fronte al mare, dove la Cala s’attarda in favore del porto, il palazzo di marmo si staglia imbellettato in tutta la sua altezza. Tonnellate a migliaia di cemento, mattone su mattone, ferro, infissi; tutto, tranne il rivestimento.

Le lastre di marmo sono volate via una alla volta, o più d’una in ordine scomposto. L’iniziale apprensione di astanti e avventori, ha lasciato presto spazio allo stupore, per sfociare in incredulità, prima, e poi in rassegnazione. Voleva essere vessillo d’una città forte, capoluogo – o capitale, come fieramente si mormora – ma all’inconsapevole vocazione dei natali, presto ha lasciato spazio alla decadenza. Le alte pareti, che ancora cingono l’edificio, sono simbolo di spavalderie protette, da confinare entro mura impenetrabili, come parchi e zoo dell’inconsulto.

Erano gli anni settanta, ed il sacco era stato mirabilmente confezionato. Nucleo urbani, quartieri, prospetti liberty, arte e mercati, tutta un’unica purea abilmente imbastita per la speculazione edilizia.
Palazzoni stile Manhattan, cementificazione, distruzione di spazi ancora verdi, imperversavano.
Quantità, opulenza, cantieri, rumoreggi, innalzarono tempi stagliati e brillanti; privi di vita in partenza, funzionali al soldo ripulito e mai utili all’uomo.

Tanto, tanto; tanto.
Resti già in partenza per l’inutilità e lo scempio, immagini del niente d’un panorama ancora da rifare.