martedì, agosto 22

Due lampade appese, lascive di luce gialla verticale, tinteggiano mura, scorticature e pietrisco della vanedda. Elettriche vampe, discrete e vigili, ne delimitano gli opposti, lungo un calpestio di sette case per lato. Ponte da una via all’altra, la vanedda congela i ricordi di lustri passati. Gli scaloni ai piedi d’ogni uscio, in inspiegabile numero dispari, allo sguardo evidenziano famiglie e altrettanti balzelli da passare. Perché non v’è tratto franco all’osservare; dove ognuno sa e sussurra appena dietro la cassina; armatura di listelli di legno per fronteggiare mosche da un lato e svicolare sguardi dall’altro. Le mura d’ogni casa, quasi toccano quella a fronte; il riecheggio di voci si rincorse nel ruvido d’ogni parete, terminando nel fondo in urla smorzate. Arabe le vanedde, così rivendicano nobiltà; così il sole riesce a vincerle scorrendo solo a perpendicolo. Nel breve tratto del solleone, mani spargono acqua dal vacile verso terra, per attutire la canicola e preparare le frescure dell’ombra imminente. Le correnti ascensionali d’aria armano il chiacchiericcio del nuovo giorno. Occhi scuri di dattero s’incrociano, ora odori di menta e limone danzano nei preparativi di the e granite.
Resta l’afa, e soffi d’aria incostanti; non si racconta la vanedda di notte, perché nel rigo emergono scorci di ricordi. La voce m’insegue; e io sono bambino; corro al trotto, mi rigiro raggiunta la fine. C’era un riso riverso al cielo; una canotta bianca in tinta con la barba canuta e incolta. Voce che viene, voce che va’.

martedì, agosto 15

Non scrivo per me; con leggerezza ed un filo di tensione, descrivo ciò che i meandri immaginano. Da tempo penso a questo vivere per assenza, in quest’accordo di note tirate da un filo sottile di seta. Nei frastuoni, quando gli altri impersonano l’ancheggiare voluttuoso dell’ignaro, passa e penetra quest’idea trasparente del ''potevo esistere''. Ecco i sospiri e gli allontanamenti, le facce molteplici e scure, con esigenze di stanze lontane ai frastuoni della voce. Qualcosa è successo, è evidente; questo me lontano e latente che emerge. Trascorrono così le decadi, che sono mutazioni ed immagini altere; un seme trapela da pensiero in tensione. E quando osservo e pasteggio fraseggi di paesaggi statici; ed invece il moto è dell’agitazione. Ci sono spot che vogliono emergere, che non chiedono e s’impossessano della navigazione a vista. I minuti diventano eterni e le freddure emergono dai sopori della notte. Dimenticare, additare ''il sogno'', dire ''basta!'', leggere libri di centinaia pagine d’umore. Poi osservi gli angoli desto e si appiccicano rugose le maschere, ci si interroga nell’intendere la fine dell’arginare. Respingere, per anni cupi; dissimulare per svilire condizioni imprescindibili.
Siamo tanti e ne avverto il brivido; forse in cose che furono, chissà, o che in propensione avverranno. Non bisogna credervi, non necessariamente; ci sono processi che avanzano privi dell’altrui consenso. E se fosse un messaggio? E se fosse un vociare di una mano sulla fune dell’esistenza? Nelle acque elido gerbidi i sensi; nel mescere d’aria e sale, nel colpire impavido di flutti lunghi di fondali torbidi. Così alzo un braccio al tramonto, per l’osservare d’oro palmo e dita. Per un attimo dimentico e rido, imperterrito di sarcasmo e difese. Sballottato, compenso ogni tremore, ricaccio in gola all’orizzonte terrori d’oblio. Galleggio e navigo in sospensione liquida; ora con entrambe le braccia a vittoria, paralleli ai fondali, con gli occhi socchiusi ed il ghigno del vezzo di chi tenderà la mano per l’avvio alla tenzone. E su, e giù; sommerso.

lunedì, agosto 14

Facce e sguardi, nello scandire di pose; posture ritte, a futura memoria, circondate da rigidi drappi. Grigi orpelli, bordati dalle varianti del bianco. Tessuti cadenti, sotto ginocchia incartate di tremori disuniti; addomi tenui, rigonfi d’arie e credulità infami; spalle ritte, per la sospensione della gravità sbordante dal capo. Mani su mani, e dita ritorte su avambracci inarcati di cerimonie. Parole vacue, appena proferite per le ricorrenze della festa e le attese d’oltreoceano. Occhi incrociati sull’artefatto e sullo scenario, senza il tempo del ponderare. Carte su carte, e rigori e bagordi; quanti scarti e quanti accenni, quanti rosolati umori; e inosservanze; e vaghi sorrisi. Vi muovo, così, vaghi d’abiti e luccichii di scarpe. Confondo ricordi; in queste parole inespresse; ma sento i vocii fuori scena, percepisco ansie e sensi. Centinaia, migliaia di alterchi; fiumi di oppressioni sulla pelle, filtrati da aspirazioni calpestate. E sentir tutto su quest’epidermide, indurita dai riflussi e gli alterchi del sole. Insonnie divenute perpetui film notturni; quando tutto torna, ciò che non è disperso. Impronte del viso, viste e dimenticate; raccolte come palesi foglie d’autunno, trasportate dalle colle dei venti freddi. Attimi ignari che si moltiplicano in ogni istante, con nuove immagini per ricolmare il cesto. Valzer uno sull’altro, d’inanimato fulgore; corvini di scuro, sguardi di rado emergono. Oltre pose, i tempi e le distanze; avverti allora disagio e presente. Caso di spose di bianche livree; di militi da ritte virtù; di Nostromi d’altrui senso.
Nel compenso e nella folla alberga il mio plaustro; senso d’amico ch’osserva su file dispari, in alto; e sorseggi di risa femminine nelle rime del basso. Osservo nodi scarni di consunte cravatte e camice candide nei riflessi del viso. Sguardi; uno per uno tra le decine; volto, ancora un altro, sino a trovare ed ipotizzare. Gente d’ombra silente ai fianchi d’orde moventi, in scontri d’alterchi nella miscellanea del tempo. Qualcuno sussurra; qualcuno s’avvicina. E non c’è tempo; e non c’è scelta; e non c’è tregua.

martedì, agosto 8

Ascolto, fiuto, parlo e mi muovo senza averne coscienza; tutto succede al di fuori di me stesso. Mi rivedo in qualche foto colorata, ma non sono io; non riconosco alcuna delle azioni possibili. Le pose che scorrono innumerevoli e i momenti del fare; mi ritrovo ad invidiarli. Osservo un volto scurito da barba nera striata e canuta; la concentrazione delle grandi cose, e la dedizione degli eventi che rapiscono. Un quadro, una situazione da incorniciare. Mi chiedo se mai sarò capace delle stesse emozioni; a quella barba sottrarrei gli occhiali, per osservare dalla stessa prospettiva. Inutile ancora una volta; una maschera adagiata non spegne la brace. Le parole scivolano lievi, come liquidi incompresi; osservo una voce parlare, conferisco con gli altri e all’unisono anelo domande a me stesso. Improbabile nei modi, alla frase elido la conclusione ed epiteto d’entusiasmo. Con occhi e viso assumono la posa della stanchezza; non v’è riposo che possa smorzare l’ansia d’ignorare. Parlo fuggendo; remoto ogni luogo occluso. M’incammino nella favola di tresche e sensi, con l’abbandono del naufrago all’approdo d’acque basse, dopo sussegui fondi d’oceano.

giovedì, agosto 3

Il raggio
m’osservi!
ch’io figlio
scivolai
tra rene
di sale
d’arene
d’acque
profonde
d’ombre
di piogge
peste.
Con voce e tono; poi il far dell’avambraccio e la mimica del corpo, infine le risa nella tinta sottratta dei capelli. Con tutto e con questo, in quel volgere di minuti, di lastre scure e trasparenti e lettighe e sonde. Il momento dell’ascolto sommesso, poi il segno del divario con l’uomo che emerge. Tre parole, poi tre ricette ataviche ed essenziali.
Acqua; nei circoli d’ogni parete, nei cerchi di correnti, nelle bordure umide dei ricordi. Tepori d’ansie e vapori, nei pietrischi drenanti di piogge attese. Zampilli nell’incrociare assurdo di fontane d’Agosto, in vasche gialle in cui emergono monete bronzee. Pozzi artesiani di voglie di scavare la terra, per aspirare gocce ed umori.
Sale; nei cristalli bianchi sgretoli della pelle, quando le arsure spinte lasciano ruvidi tratti. Come nei rivoli asciutti degli occhi. Di seccure, come nelle distese rosso acceso lungo le banchine delle memorie, quando gli effluvi superavano gambi di sedie incolonnate. Polveri, nel verseggiare roteato di certi mulini, nel diffondere delle tinte del bianco.
Sole; elemento cardine che anela, dirige e sistema ogni pulviscolo; in questa terra in cui noi uomini viviamo d’attese sotto gli effluvi scomposti. Quando ogni ricordo passa e trapassa per tazze di porcellana con acque ed oli galleggianti. Allora, e poi chissà quando, bisognava togliere, elidere gli effetti.
Terra che ricorri nella mia mente; immaginario, limite e potenza di questa mente che sorvola nelle pieghe dei secondi. Quando non c’è tempo per pensare e balbetto rendendo l’immagine dell’indeciso, e sono altrove, e sorvolo sopra muretti a secco per carpirne l‘ultimo segreto. Quando i gialli dell’indefinito, di verdi risucchiati d’acqua, nei trattamenti di sale e sole, effondono sospiri d’essenze d’erbe ancestrali, rilasciati tra i montarozzi di pietrai bianchi. Il pensiero passa e sospende sassi, seminando punti come alterchi nel cielo. Poi arrivi nella curva, giù per la calata, e non c’è niente ed altro.
Osserva lo sfiorare dei piedi, paralleli e composti, come nello riempire caselle disegnate da segni inesistenti delle dita. Pensa le gambe ritte per quel che si può, e poco importa; definiscine i rigori e le stabilità. Qui, Padre, con il busto e con il resto del corpo a manifestare che qualcosa avrò capito. Nell’osservare l’attacco e lo sfondo; nell’aspettare l’alto a mezz’aria. Queste mani nel lancio del comprendere, nel tentativo immane di cogliere e sintetizzare.
Ci sarò, vedrai, a compierne il momento; vi aspetto, vedrete, tutti in adunata, a dare risposte sin ora intentate.
Clack, clack...poi clack. Così; per la vita.