sabato, dicembre 28

Leggo in BlogOltre l’ultima intervista fatta da Pietro. La caratteristica che contraddistingue questa parte del suo blog, è la scelta coerente dei soggetti, tutti autori a loro volta di blog particolarmente interessanti e coinvolgenti. Il lato originale consiste nelle formulazione di domande nei confronti di persone che nel frattempo Pietro ha avuto già modo di leggere, commentare, e capire. Il risultato non è asettico, come siamo abituati a leggere in certe riviste, in cui l’interesse per l’intervistato è esclusivamente contingente.
Il dialogo con Chiara, autrice di chiaramente, è particolarmente riuscito, perché vengono espressi in modo semplice dei concetti di per se complicati, riguardanti la “vita” e la stessa esistenza dei blog.
Il motivo per cui abbiamo creato un blog è un interrogativo che prima o poi ci siamo posti tutti. Ritengo che la voglia di comunicare sia solo l’aspetto più evidente di un’inter-relazione tra persone che cercano con una determinazione ancor maggiore la condivisione di idee, interessi o sentimenti. Credo sia questo il punto nodale che può fare la differenza tra un blog e l’altro o, addirittura, allargando i termini, tra una comunità e l’altra. Chiara asserisce di aver avuto voglia di chiudere Bestiediuomini, non ha trovato bastante commuovere – leggii comunicazione – perché vuole smuovere – leggi condivisione.
Trovo schiacciante l’indifferenza, sono d’accordo con Chiara, ma ho dovuto imparare attraverso mille delusioni, che l’imprescindibilità del proprio modo di scrivere vuol dire esattamente questo. Linee tenui su orde d’ombra, è un esempio evidente di blog in cui l’interscambio e la condivisione sono ridotte al minimo. Ho sempre frenato la tentazione di cambiare argomenti, punti di vista e linguaggio, per avere più seguito, perché così facendo sarebbe un’altra cosa, non più prodotto del mio pensiero, allora ho rinunciato. Su certi argomenti non sarei categorico come Chiara, pur rispettando la sua idea, non credo che l’utilizzo di uno pseudonimo o di un nick implichi necessariamente finzione, anzi. Saranno le mie letture disseminate di Luigi Pirandello, e le sue maschere, o di Fernando Pessoa, e i suoi eteronimi, ma credo che il nick sia un modo per darci quel nome finalmente consono, che alla nascita inevitabilmente ci è stato invece imposto. Io non mi celo dietro “ombra”, comunque sinonimo di una metafora e non pseudonimo, ma, anzi, è la parte di me più vera, quella che le decine di persone che sfioro ogni giorno non conosceranno mai. Sono ombra quando evito le ipocrite formalità, quando non sono costretto, ma ho il piacere di fare, pensare e sognare, quando cioè emerge il mio ego più sincero. Non è questione di etichetta, quindi, ma firmandomi ombra cerco di dire al lettore “guarda che questi sono i miei pensieri e i miei sentimenti, per quanto storti possano apparire”. Tutti abbiamo la nostra maschera – l’io apparente -, il nostro carattere, di cui ho appena scritto e infine la nostra indole, substrato ancora più profondo e puro, una sorta di io estremo, in quanto privo di filtri.
Il mio è essenzialmente un diario personale, ma talmente tale che non scrivo di me stesso, o, per meglio dire, non descrivo fatti di ogni giorno, ma cerco di far emergere emozioni, che seppur probabilmente insignificanti rimangono il bene più alto di cui sono capace a dissertare.
Chiara infine ha un’ottima intuizione, con cui sono d’accordo e auspico: “il futuro dei blog è quello della specializzazione”, diventeranno sempre più dei luoghi di approfondimento in cui si cercherà di sviscerare l’anima delle cose, in controtendenza con i classici media che nel consumismo si sono perfettamente integrati.
Io non so perché scrivo un blog, tu invece, Chiara, da oggi dovresti saperlo, dato che hai stimolato un’intervista fuori dagli schemi e la presente riflessione che anche se fosse l’unica, e non credo, sarebbe già tanto.
Inutile dire, poi, che da oggi hai un nuovo lettore.
"Quando leggo, se leggo per il piacere di farlo e non per lavoro o studio per me il libro (ossia la vil carta) è necessaria. La freddezza virtuale del computer non mi ritorna lo stesso calore, la stessa empatia che provo a manegiare un tomo. E, certe volte, più il libro è voluminoso più mi ci tuffo dentro perché ho la certezza che in quelle pagine mi perderò e solo dopo tanto tempo ne uscirò. Probabilmente, caro Manilo, il tuo rapporto con la fotografia tradizionale è dello stesso tipo, direi tattile e sensoriale. Cosa che il digitale difficilmente ti ritorna."
Questo è il commento di Pietro sul tema fotografia digitale o classica, tecnologia e arte.

La tecnologia mi convince solo se apporta un vero progresso. La tecnologia fine a se stessa non ha senso, ci fa precipitare indietro nel tempo e ci rende schiavi del mezzo, quando l'obiettivo dovrebbe essere il fine. L'argomento è vasto, e si presta a varie interpretazioni. La fotografia digitale per un fotoreporter è reale progresso, perché riuscirà a compiere il proprio lavoro con maggiore velocità e precisione. Purtroppo, però, anche questo sistema produce delle storture, perché spesso la gara tra i vari media non è sulla qualità dell'informazione, ma nella capacità di "bruciare" i concorrenti nel tempo. Al di la, comunque, di certi aspetti professionali estremi, l'arte e i mezzi per crearla richiedono tempo, ponderazione, carnalità e fisicità con la materia trattata. Non riesco proprio ad immaginare un Cartier Bresson del 2000 con un apparecchio digitale in mano. E' vero che l'arte non conosce confini, ma le foto "artistiche" o presunte tali realizzate con il digitale mi appaiono come quelle costruzioni messe in atto da certi architetti giapponesi attualmente in voga. Forse originali, strabilianti, ma senz'anima.
Qualche tempo fa Umberto Eco ha tenuto delle lezione circa la non migliorabilità di certi oggetti comuni, che vedono nella loro semplicità la genialità irraggiungibile. E' il caso della forchetta, del libro o della penna. Tutto quello che si può aggiungere rischia di essere quel dippiù che ne appesantisce l'uso. Mi sembra che questo valga anche per l'immagine; d'accordo, nuove possibilità, svariate manipolazioni, sembrano arricchire il mezzo. In realtà per scattare una foto è sufficiente, ed è contemporaneamente il massimo, il rapporto empatico tra scena, apparecchio fotografico e fotografo. Dubito, che un "beep" che segnali le pile esaurite, o cento led lampeggianti e trentadue pulsantini, possano apportare un miglioramento. Poi, è notorio, tutto è relativo, e aspetto smentite.

giovedì, dicembre 26

Oggi Pietro mi ha chiesto di esporre un motivo, ne bastava uno, ma valido, per giustificare l’uso di un apparecchio fotografico classico piuttosto che uno digitale. Forte del recente acquisto di una compatta HP da un megapixel, sostiene che è praticissimo e veloce inquadrare, scattare e stampare una foto, e la qualità è buona. E’ risaputo che attualmente la qualità delle emulsioni su pellicola è maggiore rispetto a quella ottenibile dal digitale. Ma il punto non è questo, i termini della discussione non possono solo essere la qualità e la praticità. Ognuno di noi isola nelle cose un ambito di azione, per cui il concetto di “migliore” può divenire rarefatto se non circoscritto e motivato.
Per me fotografare è culto dell’immagine, vista in trasparenza, come fosse filigrana, attraverso forme e cromatismi setacciati in un gioco a sottrarre. E’ il latente che emerge, filtrato nell’orda di grafismi e simboli inconsulti. Un’analisi profonda di ciò che ci cinge e coinvolge, la visualizzazione di una realtà, tra le possibili, non può essere misurata con il tempo, sicuramente non nel modo convenzionale, e la praticità diviene solo un modo per semplificare approssimando.
Avvertire la sensazione di un raggio di luce, che attraversa una lente per adagiarsi su di una pellicola, è un’esperienza unica, palpabile solo se esiste una propensione a vivere la scena, con l’apparecchio fotografico che diviene un prolungamento della nostra vista. Ogni cosa carpita deve poi essere coccolata, cullata. La camera oscura è uno dei rari luoghi in cui ho sentito azzerarsi il tempo, in cui il buio ed il silenzio sembravano assistere alla veglia d’un parto. E tra taniche, liquidi, bacinelle, qualcosa nasce ed emerge dal nulla. Si è costretti a pensare, a ritornare indietro al momento dello scatto, è un modo per sconfiggere quel consumismo che vede scemare la nostra vita prima che le cose.
Questo rapporto passionale e sentimentale non lo si riesce a ricostruire con il digitale, tutto viene condotto all’insegna della rapidità e della corrispondenza tra lo scatto e la visualizzazione. Fotografare è un processo di vita, è la nascita di un’idea o di uno sguardo, è un frangente, una culla temporale, in cui qualcosa di appena sbirciato subisce un’evoluzione modulante. Strano a dirsi, ma l’immagine nasce dopo lo scatto, quando l’istinto del momento diviene necessità di collocazione, esperienza di vita e predisposizione all’emersione, una delle tante possibili.
E’ un po’ il motivo per cui a volte lascio la tastiera e riprendo in mano la mia stilografica. Quello che voglio scrivere in fondo è lo stesso, ma il lieve gracchiare del pennino sulle invisibili rugosità della carta e il lento defluire dell’inchiostro dentro la lamina di metallo, predispone diversamente l’animo. C’è un rapporto fisico insomma, è il gusto del bello, l’immedesimarsi con un mezzo che diviene parte di noi stessi, è la consapevolezza d’un mondo di simboli e della necessità di carpirli con una sinuosa sintonizzazione.
Mi sembra un po’ la battaglia che sostiene Giulio circa l’uso corretto della lingua italiana. La velocità del dire e dello scrivere spesso origina una violenza alla lingua. Potrà sembrare bello, alla moda, coniare smodati neologismi, ma in realtà è un atteggiamento di rapidità sbarazzina. Probabilmente con l’andar del tempo certe storture verranno annoverate anche dal Devoto-Oli, come è possibile che in futuro vengano propinati solo apparecchi digitali, ma questo vuol dire poco. Come al solito la convalida consensuale non è indice di ciò che è giusto, bello o migliore, ma solo segno di dove si saranno indirizzate le masse, raramente coscienti.

mercoledì, dicembre 18

Una cripta rugosa, bianca come la pietra che le da la forma, che polverizza lungo pareti ed interstizi una luce cadente. Una cella, dove rumori e vizi si disperdono attoniti, filtrati da quei calcariniti docili all'intaglio e sordi all'eccesso. Li, nella stanza dello scirocco, il mondo non entra, approdo fuori dalla storia e dalle inclinazioni del momento. Centro di gravità senza tempo, dove lo spazio fluttua deformato dai lunghi meriggi arroventati dall'estate. Nella stanza dello scirocco, cinico vento che spira da sud-est rinseccando la mente e le ginocchia, vorrei rifugiare certi ardori dell'animo, placando frenesie inconsulte e insensati inseguimenti a spirale, come sovente si scorgono fare i cani con la propria coda.
Oltre la caparbietà dell'indole, innestata nella stirpe siciliana, gli arabi lasciarono l’impronta del loro modello culturale di intendere l'urbanistica e l'architettura. Ogni nobile casa, così costruita, aveva una camera dislocata nel sottosuolo i cui corsi d'acqua, kanat a Palermo, vi scorrevano circolarmente tra i sedili ricavati nella pietra, refrigeravano gli interminabili giorni in cui soffiava lo scirocco. Lì vorrei tramandare, lieve, la mia presenza, lentamente mescolata con il gorgoglio dell'acqua, che cingendomi attorno possa dissetare l'insaziabile mia arsura. Bramo il dì in cui le leggende possano lasciare un segno, risvegliando quel fondo di verità di cui sono intrise. Basterebbero, allora, tre grida uguali e cadenzate per far crollare stanza, scirocco, ed edificio. Dovrei trovare il punto però, unico e solo, da cui innescare la caduta verticale. Poi intonare tre volte, Vento, Vento, Vento!

domenica, dicembre 15

Succede che quando si vive in un ambiente se ne fa parte, e non si pensa e non si scorge. Si è parte del bello e quindi non lo si contempla, si è tessere dello stesso mosaico nell’assieme che è lo scenario. Così nel tempo, quando la vita ci spinge altrove, ci si ritrova a pensare a quei luoghi e il dubbio emerge. Chissà se quelle atmosfere, quelle magie, rivivranno amplificandosi, come zampilli di una fontana, o esistono forse solo nella nostra mente e sono frutto, quindi, di un artifizio. Una sorta di nostalgia che rispolvera i grigiori e ripennella la luce. Dato che il trasporto dei sentimenti è la nostra stessa vita, e il reale altro non è che una soggettiva e possibile miscelazione del lapilli che ci attorniano, amo divagare e presentare il mio scenario, vero perché immaginario.

Per trovare a volta bisogna perdersi, e nello smarrimento si osservano nuove forme. Mi sarà accaduto questo alla fine degli anni novanta. In quell’anno avevo vinto la mia atavica riluttanza verso le folle sterminate e, armato di filtri, pellicole, obiettivi e macchine fotografiche, mi aggiravo per il Festino di Palermo, storico tributo a santa Rosalia e alla voglia dei palermitani di guadagnarsi protezione. Era il 15 Luglio, come accade da qualche secolo, e il caldo torrido dell’aria si miscelava indissolubilmente quello dei corpi pressati l’un l’altro, come negli autobus ogni giorno, motivo per cui la folta schiera di gente era ben avvezza ai gorgheggi di sudore. Confuso e disperso, tra carri, maschere, fumi e farine d’ogni fatta, mi ritrovai trasportato, come di solito riesce la corrente, ai Quattro Canti di Città. Se non fosse stato per l’inconfondibile maestosità, avrei giurato di essere altrove. Quel gioco di luci e colori, filtrato dal pallore del fumo, innescava un rimando di cori e ombre, creando uno scenario surreale e alienante. Una crisi da osservazione catalizzante, sprofondata nell’inquieto, a tratti corrispondente per intensità e metodo a quello che provò Adso da Melk nell’osservare il portale della chiesa descritto ne “il nome della rosa”.
Da quel giorno sono tornato più volte in quella piazza, non l’ho più trovata uguale, ma sempre profondamente mistica. Amo chiudere gli occhi, ora, ed immaginarmi lì, al centro, come se fosse possibile placare per un istante il rombo e l’impeto del fiume d’auto incolonnate.
Chiamata a volte Teatro del Sole e ufficialmente come piazza Vigliena, i Quattro Canti di Città, opera barocca, si trovano all’incrocio del prolungamento del Càssaro, oggi Corso Vittorio Emanuele, con via Maqueda.
Siamo di fronte alla sintesi spaziale e “occhio” della città, da cui è possibile scorgere e dominare tutta l’antica Panormus, la città tutto porto, come vuole il significato greco. L’intuizione è notevole. Perché dai quattro canti in poi saranno le strade e le piazze a condizionare l’urbanistica e non viceversa. Nei Quattro Canti tutto è simbolo, dalle fontane rappresentanti gli antichi quattro fiumi, alle statue dei quattro viceré spagnoli per finire con quelle di altrettante sante, protettrici delle quattro arterie fondamentali della città dislocate alle spalle di ognuna di esse.

Si ci può perdere, lo ribadisco, in pochi metri di terra, si possono sentire vibrare sulla pelle le tante vite che all’Incrocio di Palermo si sono sfiorate. Nobili, volgo, delinquenti, uomini di legge, da lì sono passati chiusi nei loro pensieri, intimoriti dall’immortale presenza di un’opera destinata a solcare i tempi.
Poche parole negli anni sono state altrettanto pennellate, quanto quelle dedicate a quei quattro baluardi da Giovanni Battista Maringo:

Non potrai o Palermo, essere racchiusa in una più augusta Palermo,
perché sei opportunamente suddivisa in molte vie,
e piacevolmente tu che sei una sola città,
comprenderai quattro città.
Maggiore di te stessa,
ti sei fatta generatrice di te stessa.

sabato, dicembre 14

Trovo avvilente che ancora oggi, dopo la mattanza che ha fagocitato uomini ed istituzioni, si possano leggere certi articoli che rimettono in discussione le acquisizioni più elementari, frutto degli ultimi venti anni di lotta a Cosa Nostra. Non è un giornale in cerca di notorietà o la penna di un giornalista alle primi armi, sprovveduto, o politicizzato. Il quotidiano è Il corriere della Sera, che a firma di uno dei suoi più noti commentatori, Francesco Merlo, pubblica in piena prima pagina un pezzo su Bruno Contrada che ha dell’incredibile. I toni apparentemente stemperati racchiudono un vizio antico, il centellinare, cioè, di nozioni e punti di vista altamente forvianti, che ottengono nella loro somma un effetto devastante. Contrada non è mai stato “la guardia che si fa ladro per fare meglio la guardia” o “il servitore fedele di una istituzione ambigua”, semmai il ladro che si fa guardia per fare meglio il ladro, esso stesso parte integrante di un’istituzione ambigua. Credo ancora in una società migliore, in una Sicilia libera da Cosa Nostra e dalle mafiosità, e in questo – caro Merlo – è necessario vedere tutto bianco o tutto nero. Io assertore delle sfumature, in cui vivo, auspico contrasti vivi in Sicilia, non mezze tinte. Voglio sapere, e plaudire, chi profonde un impegno assoluto dedicando la sua vita per la collettività, e voglio anche sapere, e additare, chi ambiguo si muove sull’inclinazione del momento, trucidando principi e dignità, prima che persone. Spero che ci sia chiarezza, che non ci siano ancora in un paese civile persone improcessabili, che ogni cittadino, ogni siciliano ed ogni italiano, possa distinguere l’Istituzione, e chi la serve credendoci, dai vili e parassiti che dietro una divisa o uno stemma sproloquiano, ingannando, sul senso dello stato.
Mi sembra che ci siamo rituffati dentro vecchie polemiche e cavilli formali, tempo in cui un incredulo Leoluca Orlando e uno sbigottito Michele Santoro vennero accusati l’uno di aver calunniato il Maresciallo Lombardo e l’altro di avergli dato voce. Anche allora, come per Contrada, la questione è la stessa, la guardia – o l’istituzione se vogliamo – che va a braccetto con il mafioso per servizio. Non so se sia lecito o meno, ma nell’isola a tre punte certe ambiguità non si possono tenere, in Sicilia non si parla, bastano piccoli gesti, delle movenze o lo sguardo. La guardia accanto al ladro, quindi, di per se è un messaggio chiaro, che non può che aumentare la diffidenza dei siciliani e rafforzarne la filosofia d’emergenza per la quale bisogna vivere e lasciar vivere.
Non so se Bruno Contrada sia colpevole o innocente, a diffidare di lui per primo fu Giovanni Falcone, vero e fedele servitore dello Stato, lui si privo di toni mediati. Non si spiegava come certi capomafia potessero sfuggire alla cattura, fino ad arrivare alla conclusione che dietro all’inspiegabile c’era la mano dell’uomo cangiante per definizione, Bruno Contrada. Chi era quest’uomo quindi? Che ruolo aveva all’interno delle istituzioni? Per mandato di chi? E’ possibile che due apparati dello Stato perseguendo, teoricamente, lo stesso fine si siano intralciati a vicenda? Le risposte apparentemente facili si complicano nell’asse che unisce un funzionario del Sisde, Cosa Nostra, la magistratura siciliana, la politica e i poteri forti.
Ho incontrato Bruno Contrada una sola volta, per puro caso, risaliva via Dante a Palermo, giusto difronte la casa di Leoluca Orlando. Il suo passo lento accompagnava il capo, chino su di un impermeabile color panna, il suo sguardo sfiorava appena le auto che provenivano dalle sue spalle e incontrava a volte gli autobus che gli venivano incontro dalla corsia riservata. Avrà pensato tra se e se a quante volte gli uomini di legge, poliziotti in divisa e magistrati, avevano percorso a sirene spiegate quelle corsie delimitate dal giallo e da cui è possibile percorrere le vie contorte di Palermo sfidandone il senso. Forse avrà accennato ad un sorriso al pensiero che pochi anni prima, metà anni ottanta, il Giornale di Sicilia aveva scatenato una polemica su quelle sirene che disturbavano la quiete pubblica. Lui no, Contrada non era tipo da sirene e auto che svettano lasciando le impronte sull’asfalto, lui era un’ombra – in questo ha ragione Merlo – e le ombre non devono sfuggire e correre, sono sempre presenti, come lo furono nei più eccellenti eccidi della storia recente italiana.

giovedì, dicembre 12

Fuori dai clamori, dove i riflettori arrancano impotenti e chino il sipario sottace, riappaiono le tinte cangianti di sfumature e avare di contrasti. Lì, dove non bazzica il coro e nessun occhio vitreo ha mai puntato lo sguardo, in un sentiero o un dirupo, c’è ancora qualcuno che ama il vociare, il rotolare pietre, perché è ancora possibile un sotto, il chinarsi, l’osservare e il sentire gli odori. Una pulsione viscerale, impossibile da refrenare, ci fa lasciare l’auto oltre il primo semaforo, si scende, e, riposte le scarpe, si salta via oltre il primo steccato. L’incanto è perdersi, vagare, solo, con i propri pensieri, al di la dei mille stilemi, troppi, da scordare. In un selciato, uno di quelli, nacque un’idea, poi sinonimo ed in fine metafora. E’ l’ombra che da tempo m’accompagna, muschiosa presenza, che mi felpa il passo. Laddove la luce non arriva diretta, tagliata e lenita affinché la pellicola del mio essere non ne venga invasa, emergono i miei intensi respiri onirici. Avvezzo al vagare, oltre verticali spranghe mai paghe, emergono in fila le corrispondenze e le danze. Nell’immane rimando, defluisco tra verbo e gola, non c’è fine, ma solo l’istante, e il farne parte.

martedì, dicembre 10

C’è una spiaggia a sud di Tunisi, dove la sabbia dorata si stende per chilometri, raramente interrotta dal mare che affonda il colpo lambendo il limite massimo, oltre il quale c’è l’uomo con i suoi argini. Siamo ancora in Sicilia, ve lo garantisco, per averne la prova basta aprire una cartina dell’Italia e far scorrere l’indice giù, molto in basso, fino a sfiorare Palermo, per poi sorvolare Enna e scorrere l’estremo lembo, a Oriente. Pozzallo è un paese senza storia, unico vanto la torre Cabrera, costruita per allontanare lo straniero ed imprigionare i temerari irriducibili. Ad un soffio di vento da Scicli, Modica, Ragusa Ibla e Noto, capitali d’arte d’assoluto interesse, Pozzallo, invece, è scarna, dalla elementare urbanistica a scacchiera e dalle tracce pressoché inesistenti del passato. E’ una terra abituata ad essere supporto ad altre, priva di identità propria, carattere che emerge anche dagli abitanti, i cui discorsi riflettono spesso l’altro e l’altrove. Quel cielo e quel mare sono unici, però, di rado ho intravisto squarci di simile bellezza. E’ questo il vanto e la rivincita del paese, non la cultura consapevole, ma quella dell’essere in quanto parte di uno scenario. Tra le dune amavo stendermi per origliare il vento misto al mare, dove le nuvole disegnavano ombre fugaci tra la sabbia in moto perpetuo. Uno scoglio, bianco, era la meta lontana – così appariva – verso cui tendere, quasi colonna d’Ercole insuperabile ma auspicata. A volte il mare sommergeva tutto, e spariva la sabbia e con essa i confini, non si poteva che osservarne la spuma in quei momenti, bastava adagiarsi, e non occorreva pensare.

lunedì, dicembre 9

Vuole la letteratura che Padova sia la città dei portici, migliaia di metri che si snodano tra vicoli e gallerie in una gruviera di vocii ed echi. Sorseggiando i passi, in un gioco di rimando con il selciato, in quei giorni che pongono fine alla settimana, sovente ho meditato su questa intrigata faccenda. La Palermo ordinata, questo ritengo Padova, poi lo stesso affanno d’uno stile vecchio e la capacità di sfaccettare ogni concetto, accendendo riflettori di luce pennellata. Ma quei portici, quel labirinto urbano, da dove provengono? Se chiedi ad un padovano, abituato ad osservare, ti guarda interponendo tempo tra se e la risposta. In fondo il quesito è semplice, e la città è nobile, si amano le passeggiate e le lunghe conversazioni e nulla meglio d’un portico può consentirlo, al riparo dalla pioggia, senza orpelli ed accessori, con le mani calde, nelle tasche. Per la mia propensione a tagliare gli estremi delle cose, le più probabili e le più assurde, o per il gusto dell’immedesimazione che tra il Pedrocchi e Piazza delle Erbe è inevitabile, ho riflettuto a fondo. Questa sera, tra il fumo pungente delle caldarroste e il sibilo d’un violino sono arrivato alla conclusione. Cara Padova, città veneta, naturale contrappeso alla fredda Verona, troppo linda, troppo lucida, con quelle volte non intendi riparare il tuo humus vitale, i tuoi uomini, dall’acqua e dal cielo. Tu, felice del brulichio vivace che lambisce ogni angolo, in un estremo e generoso impeto, vuoi impedire che i tuoi diletti cittadini e ospiti possano volgere lo sguardo in su, al cielo, fosse anche un solo angolo. Contorni e stordisci con affreschi, palazzi e stucchi perché lo sguardo sia più possibile orizzontale, motivo per cui tutto il bello e sotto traccia, in linea, mai in alto. Il sole avaro non è clemente con Padova, il grigiore diffuso è di nuvole troppo alte per essere dipinte. Tutto ciò che è caldo e dona luce proviene da sotto le mura, quasi lieve mantello, emblema e vessillo.
In quei lunghi giorni in cui sale la nebbia, il sipario appare finalmente aperto. Come in un teatro nel clou del momento, compare quel fumo biancastro ad accentare l’atmosfera. In quei momenti la senti Padova, non devi più vederla, c’è brusio, un volteggiare sordo, delle scarpe che disordinate si muovono. Nel giallore trapelato di luci pensule non vedi facce, ma archi e portici. Passo tra quelle cadenze ritmate, lì, grazie al cielo – è il caso di dirlo – c’è il sereno.

sabato, dicembre 7

In quei vicoli improbabili, dove scarseggia la luce di quegli avari lampioni disseminati a caso. Dove quei lontani bagliori sono troppo bianchi e crudeli per testimoniare quella notte che si spera tiepida, perchè in fondo bisogna pensare. Emergono li quei bar in cui non vorresti mai entrare, in cui sussulti tra te stesso "ma io che c'entro? Sono qui per caso e non certo per farvi parte". Arriva il momento - perchè arriva, ve lo garantisco - che bisogna varcare quella soglia, perchè qualcuno vi ci porta per mano, o perchè il caso - Lui - vuole, o è una sfida, silenziosa, con se stessi, contro l'istinto. Dentro, fateci caso, la poca luce è mal dislocata, sfiora bottiglie svuotate dal tempo e bicchieri consumati dalla noia. Cerchi il banco, o una persona, e ancora ti porti dietro, tra il biancore del fumo consumato non si sa quando, il gracchiare di quella porta, forse spia, ma sicuro monito. Quando decidi che che è troppo tardi, non si può tornare indietro, ecco che appare qualcuno che, a ricostruir il percorso, c'era già, giusto lì nell'angolo, dove altre due persone confabulano a voce bassa e distrattamente ti osservano nel profondo degli occhi. Sei in più, non potrebbe essere altrimenti. Ma allora - dici a te stesso - "perchè non sprangate la porta, o scrivete "attenzione a voi che entrate", o meglio, si, esponete astenersi dal praticare il bar". Non puoi che, dato che sei lì, vagare altrove, e chiedere il solito caffè, perché sei sicuro che ad una richiesta più mirata seguirebbe una smorfia. Si può entrare in certi bar, ma non bisogna porsi domande, poi una volta usciti si può riflettere per capire che senso hanno. C'è sempre un bar così, in ogni città, almeno uno, e continuano a vivere a dispetto del tempo e degli altri che, lussuosi e brillanti, passano e svaniscono, come tutto il resto.

venerdì, dicembre 6

Una scomparsa, e riemergo dal silenzio propizio degli ultimi giorni. Antonino Caponnetto è morto. Abile magistrato e dotato di quell’intuito formidabile che ha generato il pool antimafia, efficace arma per la lotta alla mafia motivo per cui da tempo smantellata. Con Caponnetto sono diventati grandi magistrati come Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, impronta di una magistratura che funziona e che esporta i propri metodi anche negli altri stati al mondo. Una persona di una statura enorme, umanamente prima che professionalmente. Da tempo, nonostante i suoi malanni e gli anni - 82 - era impegnato a sensibilizzare i giovani contro l’effetto assopente della falsa informazione dei media.
Ricordo quella figura esile, la semplicità del fare, lo sguardo sempre rivolto altrove. Ricordo, purtroppo, la sua faccia lacerata dopo l’eccidio di Capaci e i suoi occhi spenti dopo quello di via D’Amelio. Ha creduto, l’ho letto nel suo sguardo, che tutto era perso, ma non lo disse mai, spingeve energicamente tutti noi a cambiare le cose. Questa pausa, questi silenzi, vanno a lui nell’altare dei sentimenti.