martedì, giugno 28

D’acciaio i banchi dell’agitato far mascolino, in mostre di camici candidi rimboccate nelle maniche e cinte ai fianchi. Arpeggi straniti di dita tra bicchieri in trasparenze di cristallo colato, lenitori d’arsure gocciolanti di liquidi refrigerati in iride di colori. Pasteggi di scarne parole, scandite tra crini di capelli pomatati nell’ammiccare di sorrisi assestati ai pellegrini. Tra granite, grattatine, frizzanti misto menta e amarene; e ancora, spume altere d’autista, limonate spremute d’acqua trasudate nei sbordi dei bicchieri; e creme di gelati di fichi, gelsi e angurie.

Tempi questi bar del Sud, dello sciorinio di rubinetti a spandere sulle balaustre pallide; danze di mani che muovono tazzine e spugne da spremere, per bagnare contorni a ridonare sensazioni e respiri.
Miracoli quotidiani in sapienze comunicative gestuali, in mescite pinte e sonorità. Il tastare ch’aggrada, e il bere dal sapore degli Dei; chiesta, fatidica, l’acqua, il barista fiero e imbelle pronuncia il gomito e fiero versa dalla vitrea bottiglia ciondoli sul bicchiere. Perché nel Sud l’acqua, bene assoluto e prezioso, non si paga. Unico e trasparente, per cui non si vende; s’offre con spasmi di sorriso. Cliente propizio; ospitato con l’acqua, bevi nei rimandi storditi di scirocco.

Questi teatri immutabili, nicchie equo e solidali da infinità d’anni, stanno per finire. Un decreto reggio li colpisce; i Don Giovanni in camice bianco, mai più potranno versare un sol bicchiere. Schiere di monodose targate multinazionale, in obbrobri in PVC stanno per arrivare; bar-man sfitti s’allungheranno per adagiare corbelli di plastica con tappi da ruotare.

martedì, giugno 21

Il luogo del sogno ogni giorno m’abita; desto e lucido, scorre nel parallelo d’ogni immagine, rivelando ciò che potrebbe, nello stridere di ciò ch’è. Invisibile indipendente, chiude le fronde delle corrispondenze, echeggi d’ogni rimando. Scevro di parole e grafismi, anela sensi solleticando plettri di memorie ataviche. Nulle soglie da varcare nell’ambito d’imago di castelli quiescenti d’areale, svaniti ai cenni declini di piedi altrui. Celato al perire, occulto al variare d'ogni respiro, aleggia di giorno e sprofonda al calar dello scuro. Sommerso negli angoli e nelle ombre della notte, sfalda le latenze del giorno, sbordando le specularità della mente. Tempo; che promulga progetti memori di tenzoni di luce; dove stillano nomi vaghi di fiere, maschere d’ogni effige.
Così, chi s'appresta sublima il canto lieto e rifugge i tormenti cupi del sentire. Terso alambicco vero, Voce d’Anima sola in questo sibilo d’Universo.

sabato, giugno 18

Quella corsa mai finita nel rombo del motore; fermate su fermate nel frangere di vetri opacizzati da polveri, trasformati in schermi svolti dalla mente. La voce assente, gli sguardi accennati e la tua presenza spersa e sottile, nei rossori puerili delle guance. Movimenti composti, quadrati per non cedere spazio; fausti e opprimenti.
Angoli precoci quegli occhi nel bilico del chiedere per svanire. Pochi metri d’asfalto ci hanno forgiato, e insignificanti svolte, e dislivelli da marciapiede. Nessuna finzione in gioco; l’assenza di preconcetti e forzature, la voglia di affacciarsi a questa vita a lungo letta su fogli pallidi di scuola. Chissà se di quei fremiti hai mai saputo, o cosa hai potuto immaginare, dato che all’ardore non fu prodigo di parole e saette. O forse è stato quel tutto che transita per il niente, e ho consumato tele d’ansie per riquadri impossibili d’apparire. E ora che scrivo e rivivo, sarai in gioco altrove, avvinta da ansie e fermenti rivolti altrove. Vedo e penso, nel bisogno di quest’aria che ad ogni battito confondo con il respiro.

domenica, giugno 12

Di cosa dovrei parlare, cos’è che t’affligge nel mio ruvido rigo? Alchimista dell’animo dovrei forse plasmare, asportare e rincollare, sensazioni nate altrove? Vogliamo e pieghiamo gli altrui natali alle esigenze mere, così che quel che oggi ci infervora domani è limaccia da pattume. Dovrei ricreare, per averlo immaginato, tenzoni di castelli e principi, e vederli poi sfaldare nell’occhio chino di chi legge e non si vuol soffermare? Vuoi lapilli di parole come fossero lego da sovrappore nelle forme più strane; pensi agli ardori inconsueti che permangono al volgere d’ogni pensiero. Ed in ogni momento devo, perché se so è quello che ci sia spetta. Non c’è tempo, ne alcun luogo d’aspettare; consumista di sensazioni da richiamare, pagheresti qualunque commessa pur d’ottenere. E dei dissesti interni, degli ardori e delle ansie mattutine, di quelle, di chi si vuole occupare? Schiere di sguardi assenti, pronti nell’ancheggiare e nel domandare, senza saper dare. Son questo, non quell’altro; ti prego di non leggermi, se mi cerchi solo per l’avermi immaginato.

sabato, giugno 11

Di quel c’appare, scorgiamo il senso che ci aggrada; mi son sognato con il cartellino a fronte Feltrinelli. Commesso di segrete venture mentali, a dimenare indici e commenti arditi.
La solita libreria è a mezz’ora dalla mia città, irrinunciabile luogo di pellegrinaggio e sopravvivenza d’ogni fine settimana. C’è un commesso che assimila le domande pasteggiandole con momenti di sospensione. Un lieve sopore degli occhi, e risuona l’intonare di sequele d’elenchi, titoli, trame e consigli strani e per pensare.
Così colleziono libri da ricordare, rivedendo tanti Virgilio dietro agli scaffali fiumi in piena di parole.

domenica, giugno 5

Trascinato dal tuo passo, ti ho visto per quelle bande bianche. Nulla segnava la movenza, eppure non dissertavo d’altro nell’attesa dell’evento. L’avanzare lieve fra le onde di rumorii inesistenti, soffermava le carte casuali del solito disordine. C’eri; il culmine nell’attraversamento segnava l’appuntamento mai chiesto né ricevuto.
L’estraneo non pensa né t’osserva, non esiste finché non appare. Non ancheggiano gli altri; esistono in circolo nel panorama somma di segni lungo la via.
Quando nel punto è apparso il tuo monte canuto, c’erano dei flutti a ridiscendere per i sopori del collo. In quella lentezza procedevi nell'alterco con lo scorrere del tempo; dragamine nei fremori delle ansie ricevute in sorte dall’esile pensiero. Giorni persi nel bagliore della fronte, e quelli sfaldi in decremento tra le grinze verdi della camicia e le rugosità sfibrate delle dita. T’ho seguito in tutta la linea, retta nei raccordi e nelle somme, fino alla sosta di quella che t’apparve la salvezza. Immerso verseggiavi nella mente, e dicesti fuoco con verbosità incline al passo. Anche oltre, nel disegno preciso delle tinte unite, separate a metà busto dalla linea nera di confine, perseguivi il tuo fine. Senza voluttà di comunicarlo, né d’intonarne alcun senso. Preciso e metodico, m’hai imposto la tua visione che risiede nel fondaco dei miei umori. E non pensi all’abbaglio della mente, non ti fermi nei sussurri che avverto come urli scomposti e laceranti. Perché ti muovi, e lo sento, con l’ineluttabilità del caso incombente.
Rifugiato, sarai assopito nei sogni, intenti del domani. Io desto e insonne, per un attraversamento allucinato e per l’eleganza dei tuoi arti piegati dall’arte del tempo. Qui, con la memoria satura di dileggi incanalati in improbabili file indiane. In questi lapilli che segnano la mente forgiando canali irreversibili. Qui, a sfidare il Caso; improbabile Cavaliere con l’arma affilata del sentore che voltato il periodo mi si ritorce contro. Nella gabbia di spranghe verticali e spioventi, in cui limo le fessure; allontanando gli sguardi; assopendo i segnali sonori, che incuranti aculei m’affliggono.