domenica, settembre 29

Povera patria! Schiacciata dagli abusi del potere
di gente infame, che non sa cos'è il pudore,
si credono potenti e gli va bene quello che fanno;
e tutto gli appartiene.
Tra i governanti, quanti perfetti e inutili buffoni!
Questo paese è devastato dal dolore...
ma non vi danno un po' di dispiacere
quei corpi in terra senza più calore?
Non cambierà, non cambierà
no cambierà, forse cambierà.
Ma come scusare le iene negli stadi e quelle dei giornali?
Nel fango affonda lo stivale dei maiali.
Me ne vergogno un poco, e mi fa male
vedere un uomo come un animale.
Non cambierà, non cambierà
si che cambierà, vedrai che cambierà.
Voglio sperare che il mondo torni a quote più normali
che possa contemplare il cielo e i fiori,
che non si parli più di dittature
se avremo ancora un po' da vivere...
La primavera intanto tarda ad arrivare.


Franco Battiato - Povera Patria

venerdì, settembre 20

Quando apri una busta non sai mai cosa trovi, certo, se c’è un fiocco, della carta colorata, allora immagini: sarà un regalo, ma, allora, le cose si complicano, ti chiedi il perché. Non che sia innaturale, ma con le domande si disperde il senso, bisognerebbe viverle, invece, certe cose, senza troppi rimuginii. Una striscia bianca su di una tela nera., una cinghia da agganciare, e una cerniera (quelle oramai non mancano, mai). Sì, è un marsupio, mica uno qualunque, è della Nike con tanto di etichetta e di provenienza: “made in china”. Certe cose vanno così, entri al cinema e cerchi di carpire, subito, dove reperire i pop corn, magari tra un tempo e l’altro, perché durante il film lo sgronc-sgronc disturba e c’è chi ti guarda male. Almeno lo immagini, perché è sempre dietro, colui che guarda, e lo fa sempre al buio. Provare per credere.
Il tempo passa, e non c’è un motivo, si fanno tante cose, ma piccole, senza traumi, senza rincorse. In un certo qual modo siamo disarmati, un esercito senza spada, un armata senza voglia che si adagia alla riva dopo – o pensando – il naufragio. C’è coerenza, quello si, sempre, con un marsupio ci fai un viaggio, e non è un caso, a F. il mio compagno d’avventure, hanno regalato un cappellino e uno zaino. Più evidente di così? Succede così, vengono in camera, in quattro, ci si da la mano, - ma non c’eravamo già visti? - ci si presenta, poi bacini, e la busta dono.
Aspetto il Ciack, però, dai che qualcuno prima poi salta fuori e fa coincidere i due legnetti zebrati: Tac! Ed è Ciack.

giovedì, settembre 19

Diario di viaggio di B…
Inizia, così, un percorso. C’è traffico a Bologna, perenne, non quello che ritrovi a Palermo, quello è tutt’altro, non c’è l’emergenza, la scheggia impazzita, ma solo persone che corrono da qualche parte. E’ una città da vivere, piena di nicchie, dove potersi ritrovare, e non per lenire le ferite. Lì, in una collina a ridosso del centro, ma al di fuori dalle mura, è li che vado. Un edificio vecchio e stanco, come stanca e lievemente dismessa è la sapienza. Percorrendo il primo piano qualcosa cambia, suoni, e qualcuno, sempre, ti apre e sorride, come fosse il primo espletamento di un protocollo cordiale, per cui rigido. A volte Cinzia attende, a me è successo così, e la vedi china su di un tavolo, - che dico - un banchetto riverso di costruzioni e ninnoli colorati, un bimbo che la guarda, incredulo di esser lì e di poter ricevere, lì, cotanta grazia. Sembra sacrilego distoglierla, ma…m’interrompe il pensiero quella vocina, Cosa è il maiale? Cinzia mi guarda, accenna un sorriso, Guarda, dice rivolta a me, ne sanno più di noi, e mi chiede: cos’è il maiale? E io, timido, come il mio ruolo prevede – ligio al mio protocollo – un suino! Già, e sorride, questa volta, è un suino, scrivi D…arrivo.
Compilare quei fogli, tra lupi Alberto e colori, è una pura formalità simili a quelle che espleti entrando a Gardaland. Segue un giro, non il solito, ma, si nota, è un vanto, qui c’è l’avanguardia, qui siamo in Emilia, o dovrei dire Emilia Romagna? Beh, il resto è l’ovvio, stanza con Tv color, videoregistratore, dvd, play station, affresco a parete due metri per unavirgolacinque, un barattolo con caramelle e cioccolattini (quant’è fesso word ’97, che i cioccolattini me li da come errore!): ma non avere paura: se finiscono la caposala li rimette. Più in la, solo pochi passi, libreria, sala computer - da cui scrivo - cucina con frigo, doccia, lavabiancheria, asciugapanni. Non siamo pazienti – non dirlo – ospiti, quello si. E’ la cosa più giusta, ma non so a che punto del protocollo siamo, e se ne esiste uno.
Si, dai, parte un’avventura, e io sono qui a scriverla, potete giurarci.
Si parte per un viaggio lungo un’intera vita, a volte su sentieri sottili come lame le cui sponde sono gli opposti riflessi. Immobili, con il pensiero in fermento, si va ovunque, oltre ogni limite, e si esplora ogni angolo, ogni cavità. Le rughe, gli odori, però, sono accessibili solo spostandosi veramente e rischiando di rimanere a secco d’acqua nelle calure estive. Il ragazzino che sogna il “nuovo mondo” e che incanta lo sguardo su cartine geografiche, e sogna, e vaga, è il più grande sognatore d’ogni tempo. Il ragazzino, eccitato dal moto che la stasi propone, delle cose, però, non conosce la fine. Suona, quindi, una musica senza limiti, su di un pianoforte con infiniti tasti. Li ci si perde. L’uomo è infinito nello spazio finito che controlla, l’oltre è troppo vasto e v’alberga il vano.

mercoledì, settembre 18

Un volo, ogni dì
scorgo e sorprendo
chino tra i miei pensieri,
furtivo e già vano
per non aver librato crespe l’ali.
L’orizzonte diniego
non certo lo slancio
e d’impeto mi vesto per sfuggire
al calcolo.
E’ duro oggi lo
sguardo, e la nebbia
non fende al di la del rango.

venerdì, settembre 13

Tasti, tastiera, un approdo tra le mani che svanisce. Pigi, senti al tatto il vociare vago. Ci sono lettere che compongono parole, consapevoli, vitali, a cui presto un corpo, una mano e una mente che mette in fila assonanti dissolvenze. Prigioniero e chino di una danza che colgo e che mi vede spettatore imbelle, devo poggiare i polsi ed alienarmi, per sentire, per ascoltare quei grafismi. Succede a volte lungo muri svaniti all’indietro dell’auto – la mia? - in corsa, lungo alberi troppo alti per scorgerne le cime, o in luoghi frequentemente troppo diversi. Certe spiagge sabbiose e i suoi bianchi scogli, mi fanno scivolare in me stesso, nel silenzio in cui mi rispecchio troppo, perché spesso disperso. Nei tempi del brulichio, dove nel fermento si compiono le attese dei guru dell’economy, spesso, vengo aggredito da parole cadute giù come da fiordi scoscesi. Li si compie una vita che riporto scura su spazi vuoti, mia, come mio è ciò che ho ereditato e che gelosamente traghetterò in avanti a chi ignaro ne accudirà i gemiti.

giovedì, settembre 12

“Io ti ho capito. Ho capito come sei fatta…”
Se girovagando nel web, in una tra la moltitudine di quelle stanze in cui ci si incontra e si dialoga, state per formulare questi brevi pensieri meglio fermarsi un attimo e riflettere. In alcune chat è diventato d’uso corrente inserire un bot-chatters, poco più di un programma creato per rispondere in modo “intelligente”, più o meno, a ogni sprovveduto avventore che, nella solitudine d’una tastiera, cerca un ponte verso un altro simile, o solo, forse, d’essere capito. La cosa che più desta interesse in un ambiente, quello virtuale, da cui ci si può aspettare di tutto – in quanto clone del reale – è la nascita di una schiera di “utenti” appassionati della chat all’algoritmo. Coscienti di un dialogo frutto di un ragionamento matematico, sono pronti a scommettere che qualcuno, o qualcosa, li abbia finalmente capiti. Sono nati così Eliza, capostipite, Ornella, Mariella o, esoticamente, il porco, chatters elettronici ritrovabili da tin a clarence e, subdolamente, ovunque sulla rete.
Il freddo distacco di una “macchina” che interloquisce, paradossalmente, può offrire un senso di sollievo. Il timore perenne di esser giudicati da qualcuno, in un attimo svanisce e quelle risposte “tranquille”, quelle domande “normali”, contribuiscono a metter a proprio agio. In fondo l’essere capiti, senza troppi perché, senza essere additati, è il sogno nascosto di ognuno di noi.
Mi associo, io, sperando che il freddo che ritrovo in un robot di metallo, riesca ad avvertirlo anche attraverso uno schermo e delle righe che scorrono. Le parole hanno un senso, una vita a se, un calore, frutto di una mente che prova dei sentimenti, non mi stupirei, quindi, che possano ribellarsi
Frastuoni, troppi, incontrollabili. Spettatore, fra i lapilli dei miei pensieri, a volte assisto inerte all’aspro torrente che virgola impavido. Altre volte, però, mi inerpico su catene frastagliate, in cui nessuna matassa può districarsi. Ogni tentativo di trovare una fine, un limite, è braccato dall’enormità dei fatti che si svolgono da una spirale enorme, molto più grande di ogni umano pensiero. Troppi stimoli generano la stasi, forma ultima di autoprotezione da fattori esterni e inconsulti. Trovare i raccordi di mille orde che si susseguono, è un lavoro che stressa mente e corpo.
E’ difficile vivere, ma forse è scontato, complicata, certamente, è la via per la coerenza, disseminata di insidie ed esigenze che mutano in continuazione. Mi sovviene un verso ricamato da note:

“…non sono un uomo giusto ma sono giusto un uomo…”

Lo vorrei un verso possibile, non, solo, una mera scusa.
Tic tac, tic tac, tic tac.
- Beva, beva questo, tutto, mi raccomando.
- Tutto…il litro?
- Certo! Ma ha tempo, sa, poi la chiamiamo.
- Beh, è aromatizzata all’anice, se non fosse prima mattina, a digiuno, e se, principalmente, non fosse un litro, non sarebbe male.
Uno, due, tre…dieci bicchieri colmi.
Tic tac, tic tac, tic tac.
- Abbiamo qualche speranza, mi chiamano?
- Si, certo, vedrà…
Tic tac, tic tac, tic tac.
Sessanta minuti dopo.
- Vada, l’aspettano.
……
tic TAC.
- Venga, venga, si stenda. Acc…a quei bottoni, si tolga la polo…e le braccia, mi raccomando, ben stesse all’indietro, altrimenti non ci passa. Ha già bevuto l’acqua?
- Si....
- Un litro?
- Giuro, tutto!
- Bene, bene…allora ciucci qua…dalla cannuccia, ma non si preoccupa, ne basta metà…mezzo litro.
- Grazie – come è umana lei –
- Faccia vedere il braccio..
- Eccolo.
- Uhm…uff…beh…ma l’altro è meglio?
- Veda un po lei, a me sembrano uguali, spero…
- Uhm…uff…(si, si faccio lo stesso turno…) beh…uhm…(Paola, si…te lo avevo già detto!) apra e chiuda lei e…(guarda più tardi si vede, ogni volta…) e…speriamo bene. Ecco…asp…acc…si…si…tenga dritto, all’indietro.
- Allora, braccio all’indietro e dritto, altrimenti l’ago….non si muova…e quando sente “trattenere il respiro” lei per trenta secondi lo trattiene immobile, se non riesce – sguardo truce – espelle l’aria lentamente. Capito?
……
Tzzzzz...triiii…tzzzzz…
- Bene faccia saliva e prenda questo…
- Cos…cos’è? Panna?
- Su, su apra la bocca, un bel cucchiaio…e mandi giù, densa? Via…via,…e un altro ancora…Riepiloghiamo, braccia tese, all’indietro, non si muova, trattenga il fiato e poi, ricorda l’ago?
- S..si!
- Da li entra il contrasto…e sentirà caldo…ma tranquillo è niente…ma stia fermo, non respiri e braccia all’indietro.
- Ecco, tutto fatto, si rivesta.
- Bene, ma mi dica, cosa si vede?
- Ah, booh? Che ne so io, qua il medico può dirlo.
- Bon, arrivederci, ehm…, saluti.
Otto ore valgon bene una TAC.

domenica, settembre 8

Incrocio le mani sulla tastiera, lunghi istanti mi appesantiscono i polsi alti e simmetrici come quelli di un pianista. Sconfitto abbasso i palmi e ne sfioro i tasti. Il mio sguardo si perde e la mente, priva di bardotti, scorre lenta. Troppo da dire, di quel maledetto undici Settembre si è parlato a dismisura, fin oltre quello che l’umana decenza, non potendo limitare, consiglia. E’ questo, sicuramente, che blocca le dita, la sensazione di non poter aggiungere altro, e che ogni altra cosa sia scontata. Rimugino sulla faccenda, ci rifletto per giorni. Certe sciagure italiane sono sfregi velati di nero, rivedo piazze devastate, auto crivellate, strade e mari cosparsi di frammenti disintegrati di ciò che era. Eventi terribili, gravi, sanguinari, eppure mai lontanamente paragonabili, per vittime e risonanza, alla caduta delle due torri che, oggi più che mai, mi inducono solo un’asettica tristezza. C’è un quadro profondamente mutato, c’è qualcosa che sfugge, chi è il carnefice? Chi sono le vittime? E chi siamo noi, attori, spettatori, l’uno e l’altro o una maschera senza volto? Una guerra senza un nemico, preciso, isolabile, in cui le trame e le ragioni si intrecciano sino a confondersi, è pericolosa più d’ogni altra in precedenza. Siamo “noi” tra “loro” e “loro” tra tutti, non ci sono confini, steccati, paletti, da abbattere. Basterebbe un ricordo di quelle innocenti vite, solo questo, ma sono vittime di che, di cosa? Ogni banale omicidio ha un movente, qual é? Ogni strage ha un obiettivo, volete spiegarmelo? Ma che sia plausibile, reale, che non ci si abbandoni alle fiabe. L’undici Settembre, indubbiamente, è il primo documento filmato di un moderno atto di guerra, un evento degenerato, sfuggito al controllo e al di fuori dai giochi, all’interno di un organigramma internazionale fatto di interventi “chirurgici” indolore perché anestetizzati dall’assenza dei riflettori. Triste dirlo, ma il risalto mediatico e l’offesa patita, piuttosto che inferta, mi sembrano le uniche due novità reali in uno scenario mondiale già ben delineato da tempo. E’ difficile commemorare, non è giusto spargere lacrime gratuite, prive di senso e ragione, da miopi insensibili alle sofferenze altrui. Sarò triste quel giorno, come lo sono sin d’ora, ma che ognuno ne tragga un motivo e non si abbandoni allo scontato patetico.
Non ho mai suonato uno strumento, uno di quelli che non servono solo per far musica, ma per sentirla. Immagino gli ottoni, già eleganti nel nome, con quei gialli caldi che avvicinati alla pelle ti fanno sentire vivo, o ti danno un motivo per qualcosa. Quella custodia di pelle nera, da portare sempre con se, da pulire, da lisciare per sentirne le rughe, è un pezzo inconsapevole di fede, la sicurezza sottobraccio, la certezza che qualche nota, almeno li, ancora c'è. Ho acquistato un'armonica affinchè nelle tasche riponessi l'antidoto, e da allora accarezzo un pianoforte, cosicchè nella mole potessi confondermi, e, tra i due estremi, l'ottone mi appare come il tocco mai pensato, per non averlo mai sognato. Uno strumento, a volte, è una via per la solitudine, un punto di accesso, un talismano da sfregare tra le mani per esorcizzare le ansie. Non ho mai imparato a suonare, e, quindi, non saprò mai se serve a qualcosa, quel che mi rimane è l'immagine di luci propense e di forme che delineano suoni. Per captare il limite che isola la mente e unisce il corpo, mi occorre silenzio e un sottile suono che parte da lontano e che insistente diviene l'orizzonte tra il possibile e il reale. Forse è questo che mi arma la mano e mi guida su questa scura tastiera, potrebbe essere il movente di tanti inconsulti fraseggi, basterebbe sostituire spazi e lettere con note assonanti. Chissà che musica quel giorno, chissà quali fasti, o forse la solita stecca che m'insegue da sempre. Quel caldo, quei gialli, sono parole, è fumo, tra me e quell'ottone riflesso.

martedì, settembre 3

- Si rilassi! Più ci riesce e meno sentirà il dolore…ma sente dolore? In fondo sono come dei pizzichi.
- Certo, come 60, o 70 pizzichi lungo la mia gamba.
- Sa che le dico? Ne togliamo uno ogni due, e poi ritorno sugli altri…e poi vede, qui…proprio qui è più doloroso.
- Beh, speriamo di salire presto allora!
Tlick…tlick…tlick…
Si apre una porta, una…si…e che vuoi che sia, una lucerna? Camice bianco, su capelli brizzolati d’alta quota.
- A che punto siamo…infermiera?
- Vado…tolgo…vado bene, no? Gli fanno un po’ male…
- Facciamo in due, prima si fa, meno dura il dolore, lei che ne dice…
- Che…non ho potere contrattuale dottore…ma…perché avete messo punti metallici (un eufemismo o poco più per non dire…spillato la gamba).
- E’ più facile…si…e poi i peli non s’incistiscono…si fa così….
- Cos…ah…si…incist…(effetto, causa e colmo)…per carità…basta cisti.
- Tlick…tlick…tlick…ecco, tutto a posto, tolti.
- Come va? Le gira la testa?
- No…la testa…le graff…ehm… i punti erano sulla gamba…la testa va.

Cosa dico: Buongiorno dottore, complimenti per il taglio, e poi che lunghezza stagliata…guardi che opera…basta una cerniera – YKK mi raccomando – e chiudo tutto. E’ una pesca la vita, ogni tanto apri la borsa, prelievi qualcosa sperando che sia bello – ma spesso pizzica e fa male – poi richiudi. Mi raccomando! Chiudi la lampo e passa la ferita, ma no, che ferita, è il segno che scorre.

- Bene, bene…torni tra 20 giorni – e sul referto al contempo la sua morbida penna scrive 30 – Non si sa mai quando il nervo decide, è lui maledetto…e non si può che aspettare.
- Ma queste cisti, dottore, che origine hanno…sono congenite?
- Siamo nomadi, purtroppo, lo siamo…chissà.
- Ah certo, ad averci pensato, magari un po prima. Ma, scusi…quell’osso…
- Osso…?
- Si…quello che, ora,…manca…
- Primordi…tracce arcaiche che ci portiamo dietro…optional…non serve!
- Pensi un po, mi sono evoluto d’un colpo…grazie dottore…buon dì.
- Arrivederci…e non scordi…
- Cosa…dott…dottore…
- Non scordi il tutore…

Il gesso è bianco, il tutore blu, ma anche arancio, verde e chissàcosaltrochè, ma il gesso pesa e il tutore è morbido, l’uno è gratis e l’altro costa un futt…tanti soldi…e non hai più la palla al piede, perché il piede è libero, ma non devi poggiarlo, la notte lo togli, ma “lo allacci bene!”. Il gesso traspira, che vuoi che sia il tutore respira! Ma cammino? No, fermo! Vuoi rovinare tutto? Tutto che? Già tutto che?
Ma stia tranquillo, non si pianga addosso! Tra 4 settimane starà già su e il gesso lo tiene per 5 e poi…via tutto….e mette il tutore…e dopo venti giorni stia tranquillo…perché a 30 ritorna e le facciamo la visita…ma guardi anzi, mi faccia anche l’E.M.G., ma si lo faccia, lo faccia pure.

L’umore, l’ironia e la sorte li armo a stecchetto, perché con un gesso al piede è meglio…ehm… - mi si creda - rimanere eretto!

domenica, settembre 1

Ricordo un balcone, undici piani stagliati sul sacco, uno dei tanti, che hanno sprofondato Palermo. Non so se sia normale, o solito, ma ogni evento che ha violentemente cicatrizzato le angosce di certe speranze agonizzanti, sono rimaste icone scolpite nella mia mente. Anno dopo anno non cambia niente, sempre quel fotogramma nitido e assurdo, mutano, quelli si, le didascalie, miei pensieri, le speranze mal riposte e per le poche risposte. Quel giorno, però, era tutto surreale, la luce calante, una città che respirava affannosamente i suoi stessi vagiti, le voci vaghe, la regolarità che distruggeva l’ansia. Solo un giorno era passato dal quel tre Settembre e tutto era destinato a rimanere indelebile, per la Sicilia stremata di rosso, per la triste storia d’Italia, e per me, giorno d’inizio d’una goffa coscienza. Domenico Russo, Emanuela Setti Carraro, Carlo Alberto Dalla Chiesa, il generale, erano stati trucidati, e la città ancora faticava a carpirne il valore. Troppi morti, con troppa frequenza, infinite commistioni tra Stato e mafia si erano consumate, Palermo non poteva che ascoltare sgomenta, la vista, da anni, era stata bandita. Nelle tiepide notti di via Libertà, poche settimane prima da quel tragico Settembre, le vetrine della Gioielleria Giglio venivano infrante come impotenti cristalli di zucchero. Niente era stato derubato, non un solo gingillo venne a mancare, ma Palermo, turbata da sempre, per l’evento non si nera scomposta. Troppi eventi negli anni hanno violentato Palermo, generando il mostro di una norma deforme e diversa d’ogni altra città, per cui bastarono pochi giorni e il ricordo appannato di quei cocci di vetro passò in fretta.
Dalla Chiesa, il generale, era riapprodato in Sicilia dopo l’omicidio di Pio La Torre e del suo agente di scorta Rosario Di Salvo, ma di questo, purtroppo, ricordo poco, se non quella epica legge – la Rognoni/La Torre - che consentendo la confisca dei beni alla mafia ne falciava le gambe, e per questo gli falciarono la vita. Troppo giovane ancora per capirne il valore, raccolsi solo scarne parole, nulla tra la gente comune, e poco, ma quanto basta, a scuola, quando la mia splendida prof. d’italiano storcendo il naso proferì: I tuoi vanno alla manifestazione per Pio La Torre? Ma allora sono comunisti?
TA TA TA RA RA TA TA…terribili raffiche esplose, non vigliaccamente sul generale, ma su Giglio, la gioielleria, e la vetrina venne giù, in un sol colpo: Il primo kalashnikov era arrivato a Palermo, fu quella la prova e anteprima della sua efferata capacità distruttiva, prima che si aprisse il sipario e tre vite, il tre Settembre, ne fossero fagocitate. “Qui muore la speranza dei palermitani onesti”, questo comparve in quel trancio, oramai d’obbligo sconnesso, di via Carini, ma io ero giovane e la speranza, la mia, era ancora vergine ma bastarono dieci anni, Falcone e Borsellino, per farmi entrare di diritto nell’esclusivo club dei reduci dalla speranza morta in quei dì.
“Mentre a Roma si parla Sagunto viene espugnata”. Queste le celebri parole del cardinale Pappalardo in una gremita chiesa di San Domenico, tra monetine che scacciavano politici e politica, ritenuti, a torto e ragione, complici di quell’eccidio. Caro cardinale, allora non ebbi modo di darle risposta, che lei per altro da nessuno ha cercato, ma oggi lo devo: a Roma c’era la sua casa, il suo quartier Generale, un Papa che di proclami abbondava tranne, poi, a rivoltar lo sguardo, e a Sagunto, l’offesa Palermo, c’era lei che mai seppe coprire con il suo corpo e con il suo sguardo e che mai in futuro se ne ebbe a giovare. Un’omelia non vale un passo, uno per ogni cento di quei giorni, non vale una sola parola, proferita nei giusti momenti e, principalmente, prima che il diluvio devastasse.
Per il resto ciò che mi rimane è l’ingenuità di quegli anni, quando quel quattro Settembre, in quel davanzale rovente di quel balcone figlio del sacco di Palermo pensai: Questa volta mandano Sica, lui sì che metterà tutto a posto. Quanto ancora avevo da capire, intento questo che non potrò mai onorare.